La cura di Sé. Una introduzione
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“What I am is good enough, if I would only be it openly

(Carl R. Rogers)

Premessa

Il libro rosso di C. Gustav Jung

Come accennato nel titolo, queste righe vogliono essere solo una piccola e parziale introduzione ad una riflessione ( e ad un percorso) che “per sua stessa natura” le “oltrepassa”.Il punto di vista espresso non ha alcun carattere di “oggettività” ma rappresenta un cammino personale che continua ancor oggi. È parte di un percorso in divenire che, mi sembra, sia sempre più intimamente connesso con la mia vita e quindi non facilmente definibile in parole “chiare e distinte”. Lo condivido perciò nella sua “provvisorietà intrinseca”

Le originiCome più di un autore ci ricorda “Cura di sé” (che mi sono permesso di tradurre, non senza “tradire” come cura del Sé) è la traduzione dal greco antico di “epimèleia heautoù.” Tale espressione viene fatta risalire a Socrate. Nella cultura romana verrà ripresa e tradotta in “cura sui”.

In tale forma attraversa più di un orientamento filosofico dell’antichità. Ciò che la contraddistingue, pur nelle sue diverse declinazioni è alludere ad una “pratica di vita” e non ad un “metodo conoscitivo e astratto”. Nella modernità è Michel Foucault che  riprende e sviluppa il tema appoggiandosi all’opera magistrale di Pierre Hadot. Nella complessità del tema emerge tuttavia con chiarezza che “il fine” della cura risiede nel “disce gaudere” ( impara a gioire) come ci ricorda Seneca. Perché ciò accada diviene necessaria una “conversione” intesa come un passaggio dalla voluptas mondana al gaudium interiore. Fin qui, non ho fatto altro che una sintesi parzialissima delle “origini” di quanto volevo condividere. Chiedo al lettore di concedermi ancora un po’ di spazio per altre improbabili approssimazioni per giungere “al cuore di ciò che mi sta a cuore”

Approssimandoci alla modernitá e anche dall’origine della diffusione del Cristianesimo nella cultura classica assistiamo , se così si può dire , ad una sorta di “divaricazione” fra “virtù civili” ( riferite alla vita pubblica e più in generale alla comunità ) e “virtù personali” ( che riguardano l’”intimità della coscienza” e in senso lato “la spiritualità “ anche nelle sue declinazioni più specificatamente religiose ) che , da un certo punto di vista si protrae fino ai nostri giorni.Tal protrarsi, a mio parere, porta a vere a e proprie “fratture” nel vissuto e nella condotta.  Anni fa riflettevamo con un amico impegnato nella causa del Tibet di come tante persone facciano “i cinque tibetani” ( pratica di esercizi  assimilabili allo yoga introdotta il secolo scorso da Peter Kelder, autore che potrebbe essere uno pseudonimo,   e ad onor del vero di incerta origine , ma che comunque richiamano per l’appunto al Tibet )e non sanno nulla delle condizioni in cui versa la popolazione di quella storica regione e della sua lotta per la libertà.

Come il lettore accorto avrà certo colto fin qui, non ho scritto nulla che non si possa trovare in un buon manuale o con un motore di ricerca sulla rete. Tuttavia mi è sembrato opportuno cercare di contestualizzare le brevi riflessioni che seguiranno, che cercheranno di tracciare una “prospettiva possibile” di “cura del Sé “ che non escluda ma provi ad integrare entrambi le prospettive.

La cura

Il concetto di cura è ampio quanto la stessa storia dell’umanità. Non avrò quindi la pretesa di sintetizzarlo in maniera esaustiva.

Mi piaceva prendere come punto di partenza la maniera in cui si declina all’interno degli approcci terapeutici e in particolare in una prospettiva umanistica.( Tale termine non va inteso come “classificatorio”, ma riguarda tutti quegli approcci, compresi quelli analitici o sistemici  che considerano cruciale la centralità della persona , intesa sia nella sua “profondità” che nelle sue “relazioni” ) La cura, in questo contesto è inscindibile dalla relazione. Perché noi stessi siamo “nell’intimo” relazione. Non sbagliamo di molto se diciamo che la cultura prevalente del nostro tempo si presenta come illusoriamente individualista da un lato, e dall’altro volta alla “aziendalizzazione del pensiero”come la filosofa Michela Marzano ci ricorda e ad una generale riduzione dell’umano al ruolo di produttore/ consumatore. Tuttavia noi come essere umani inseriti in una cultura siamo definiti dalla rete visibile e invisibile delle nostre relazioni. Tali relazioni costituiscono la “trama intima” del nostro essere nel mondo e come “ci ammaliamo” di relazione, attraverso la relazione ( e le relazioni ) noi “possiamo guarire”.

Un altro aspetto inscindibile della cura è la “costituzione di livelli sempre più alti di integrazione”: fra l’io e l’inconscio, come tanti autori ci suggeriscono; fra me e il mondo, cercando di ricucire consapevolmente “la rottura originaria”; fra corpo, anima e spirito secondo visioni che attraversano le tradizioni spirituale di tutto il mondo; fra “femminile” e “maschile” intese come categorie non rigide ma culturalmente determinate e come polaritá della manifestazione; fra visibile e invisibile secondo diverse “messe in forma della realtà” come l’etnopsichiatria ci invita a considerare. Naturalmente le varie possibilitá di integrazione appena descritte ( e potremmo certamente aggiungerne altre ugualmente significative) meriterebbero riflessioni approfondite che ne potessero esaltare anche le differenze.

In questo contributo sono tuttavia le somiglianze quelle che mi stanno a cuore. Le somiglianze alludono appunto ad un “percorso” ad un “santo viaggio” simbolicamente inteso che parte da una situazione “dis-integrata” che arriva pur nella sua complessa declinazione ad una condizione di maggiore equilibrio, integrità e qualitá della presenza. Dall’io al Sé /

Dall’io al noi

I percorsi delineati dal titolo di questo paragrafo possono essere considerati almeno in due modi: o “dualisticamente”, ponendoli in contrapposizione, secondo una visione che “scinde” la realizzazione “personale” da quella “comunitaria” secondo quanto sembra essere accaduto prevalentemente nella cultura dominante; oppure come “convergenti” cercando di ricucire la distanza fra “sé e mondo”in una visione di “ecologia profonda”in cui “rimettersi in dialogo con “l’Altro” nelle sue manifestazioni culturali e “naturali”. L’intento di questa riflessione è di abbracciare questo secondo punto di vista.

Come accennavo all’inizio la scelta di parlare di cura “del Sé” e non “di sé” vuole alludere all’apertura che lo scrivente ha cercato di praticare verso i cammini sapienziali che, in particolare nella tradizione del Sanatana Dharma ( ciò che noi non del tutto propriamente chiamiamo Induismo) , configurano la dimensione della “realizzazione e illuminazione” in questo cammino. Su di un altro piano non contrapposto e per certi versi anche complementare, nelle visioni che abitano la psicologia analitica si prospetta un cammino di “decentramento dall’io” per arrivare ad una “più profonda centratura” ( il “Sé “ ) che integra e accoglie le istanze dell’ inconscio, “riconciliandoci con l’Ombra”.

Nella psicologia umanistica e in quella centrata sulla persona in particolare ,con diverse sottolineature si propone un percorso di progressiva apertura al “flusso della Vita” che ci vede sempre meno “difesi” e più disponibili” a quanto ( ci )  accade. Accettando una prospettiva inclusiva e non dualistica, mi piace pensare che sia possibile “lavorare” a più livelli di integrazione. Non “per semplificazione” ma per “concordanza”. Fra i ricordi di giovane cercatore ho in mente alcuni “metaloghi “ con il professore e amico Riccardo Venturini.

Fra questi un giorno ci chiedemmo come poteva la Psicologia e la ricerca in generale testare “la bontà” di un “percorso spirituale”, di una “raggiunta illuminazione “ evitando pretese riduzionistiche o “indigeste sovrapposizioni”. Giungemmo alla conclusione che uno strumento certamente significativo riguardava la “ricaduta biografica e comportamentale” in termini di cambiamento della persona .

Sembra avere a che fare con il biblico” Li riconoscerete dai frutti”: in termini concreti, se la mia “pratica” ( torneremo a breve su questo termine ), mi rende un umano più “abitato”, “sensibile e consapevole”,” attento e amorevole” , tendente alla serenità e alla “non egoicità” tutto questo avvallerà la portata del cambiamento. In questa visione allora, il cammino dall’”io al Sé” non solo non sarà scisso da quello dall’ ”io al noi”, ma ne diviene non tanto premessa ma un diverso aspetto dello stesso processo. Mi sembra sempre più improbabile concepire cammini, spirituali e/o  terapeutici che non “tengano insieme” gli aspetti “intimi” e quelli “comunitari” dell’essere umano. Un buon cammino non può non permetterci di essere migliori abitanti sia “del foro interiore” che di quello “esteriore”

Praticare la Nube

A dispetto del  carattere che non vuole essere autobiografico di questo scritto, non posso fare a meno di ricordare uno dei molti Ritiri Silenziosi con P.Antonio Gentili, persona di rara cultura e sensibilitá e pioniere dell’inculturazione di pratiche spirituali “altre” all’interno della tradizione cristiana nonchè della “riscoperta” di “antiche prassi” riattualizzate all’interno di percorso  di consapevolezza. Ricordo con particolare affetto la settimana in cui basandoci su un testo del XIV secolo di anonimo inglese “La Nube della Non-conoscenza”, amato da tanti ricercatori non solo cristiani, non ci accontentammo di leggerlo e commentarlo ma “lo praticammo”.

Ci  si chiederà, ma cosa significa “praticare un testo” ? Renderlo “incarnato”, farne “un percorso”, senza ridurlo ad improbabile “manuale di istruzioni per l’uso”. Da questo punto di vista possiamo riprendere il tema della “cura del Sé”: “praticare la Nube” significò passare tanto tempo nel Silenzio con un atteggiamento volto alla presenza mentale e di fiducioso abbandono al Mistero. Allo stesso modo possiamo dire che, più in generale nel prendersi cura di sé si tratterà di permettere, senza riduzionismi, di porre in atto delle “condotte” volte all’espansione della consapevolezza e dell’ amorevolezza che entrino a far parte della nostra quotidianità.

A cui dedicheremo “tempo”. Che ci accompagneranno nello “spazio”. Non alludo solo a specifici “ esercizi” che pure ne fanno ampiamente parte, ma anche di “atteggiamenti “ e “modi di essere”che possono informare “dal fondo” le nostre giornate e le nostre relazioni. Tutto questo con la coscienza della “finitezza”  del nostro” lavoro” e del nostro essere. Senza la pretesa tronfia di improbabili tecnologie che possano evitare a priori l’ineliminabile confronto con la nostra caducità.. Che possano liberarci dal nostro impegno nella vita di tutti i giorni.

Un percorso

Arrivato a questo punto mi sembra che non mi resti altro che “tracciare un piccolo cammino”. Ricordando, se ce ne fosse ancora bisogno , che quando parliamo di “cura del Sé” non possiamo che parlarne riconoscendo la “polisemicitá” dell’espressione. E la possibilitá , quindi di declinarla in molti modi. Solo per esigenze di spazio non ho voluto qui approfondire la sottile correlazione “psicosomatica” della cura , come la ricerca contemporanea e non ormai ha ampiamente dimostrato. La cito perché prendersi cura , fra l’altro significa anche a provare a “ridurre”il dualismo mente-corpo di cartesiana memoria.

Il piccolo percorso vuol essere solo la descrizione di quanto mi provo a vivere nel quotidiano e forse anche un invito alla lettrice e al lettore di trovare un proprio irriducibile modo di prendersi cura di sé.

Come premessa vorrei dire che per me è stato importante incardinare la cura all’interno di una visione che qualcuno potrebbe definire religiosa. Preferisco dire che ho avuto bisogno di un “ Cammino che ha un cuore” in cui provare ad essere in contatto con questa dimensione del prendersi cura,  convinto, come altrove ho cercato di dire meglio, che “non ci si possa tirar fuori dalla palude tenendosi per i propri baffi”.

Sono altresì persuaso che questo è qualcosa che riguarda il mio personale cammino biografico e non è una prerogativa assoluta. Credo che la premessa di tutto ciò possa essere il desiderio di vivere “una vita autentica”, di vivere “il reale” comunque lo si concepisca. È evidente che tutto questo si ponga in maniera “inattuale” rispetto a più di un approccio filosofico e psicologico. Ma non riesco a trovare metafore più efficaci per definire l’intento che sottende la cura. Nella mia ricerca ho trovato alcuni termini ( e alcune “pratiche” ) che meglio definiscono questa “direzione”. Mi è sembrato che elencarle in maniera aperta e provvisoria  possa dar loro il senso  di una condivisione e d essere un invito a scoprirne di proprie: darsi tempo e spazio per “sognare/si”.

Con questo intendo un uso consapevole dell’”immaginazione attiva”, non senza dimenticare il significato profondo che fra altri e più di altri gli aborigeni attribuivano al “sogno”. Una dimensione fondamentale, che non sempre riesco ad attivare è quella del perdonare/si. Il termine ha una “grandezza” che spesso viene “annacquata” in improbabili esercizi. Intimamente correlata è quella del ringraziare/si. Anche qui, il rischio della superficialità è in agguato. D’altra parte “praticare” allude alla traformazione possibile di una visione in un modo di essere. Tale “traduzione” implica necessariamente un “meticciamento” con tutte le istanze personali che ci abitano. Credo che sia proprio questo che fa definire come cammino ogni tentativo di una vita autentica ( e il più possibile serena)

Aprendoci alle dimensione del noi non posso non considerare fondamentale coltivare l’amicizia. Non quella numericamente significativa dei social media ( che comunque non demonizzerei , piuttosto le darei un peso più consono e meno “illusorio” ). Coltivare l’arte dell’essere amici/che come dono non solo di possibilitá di specchi non distorti e di sguardi non giudicanti , ma anche di compagni/e di viaggio. Aprirsi alla dimensione della comunità, a dispetto della complessitá dei tempi, costruendo, ognuno come può “comunitá di destino.

Tornando a quello che precedentemente ho chiamato “foro interiore” mi sembra non possa mancare la pratica della meditazione. Come ho già scritto in altro contesto il termine è un termine plurale e qualsiasi definizione non fa che impoverirne il senso, la profondità e la ricchezza. Possiamo qui intenderla come una pratica di consapevolezza che ci permette di “dare uno sguardo” oltre l’identificazione con quello che chiamiamo “io” . Sempre mi piace ricordare che nessuna meditazione è una “pratica egoica”, ma semplicemente un modo differente “ di essere in relazione con l’universo, “comunque inteso

Meditazione e preghiera

Intimamente legata alla meditazione, c’è per me la dimensione orante. Mi sono chiesto se possa esistere una preghiera laica. Ho scoperto di sÌ.Preghiera e precario hanno lo stesso etimo. La preghiera si genera nel luogo del divenire e dell’impermanenza, come l’eco da una voce lanciata fra le cime e le valli. Naturalmente non c’è nulla che non vada in espressione strutturate e condivise, anzi.Ma mi sembra di cogliere che la sua radice sia profondamente umana e non vincolata da “appartenenze” Dare spazio al riso al piacere alla lievità. Ho pensato di scriverlo proprio qui. Perché a volte mi sembra di appesantirmi. Se “mi prendo troppo sul serio”. Essere lievi non significa non essere sensibili al dolore del mondo. Significa, più semplicemente non aggiungerne di proprio. Significa anche “saper vedere “oltre le apparenze. Tutto questo , se potessi sintetizzarlo potrebbe probabilmente diventare una sola parola: essere. Il termine ha trovato tante “antinomie”.È stato rispetto ai contesti contrapposto al divenire, all’avere. Nella maniera che mi pare di coglierlo credo che sia ciò che  noi profondamente siamo. Come ci ricorda E. Tolle “l’Essere non è soltanto al di là ma anche in profondità all’interno di ogni forma (…)”. Nella tradizione del Sanatana Dharma  è accompagnato da “Coscienza” e “Beatitudine” (SATCITANANDA). Per “sua natura” ogni parola lo svilisce. “Resiste” ad ogni tentativo di “reificazione”.

Mi piace concludere questa “improbabile navigazione” con un haiku che amo molto e ha accompagnato un altro mio scritto:

“C’è una meta

Per il vento dell’inverno:

il rumore del mare”

(Ikenishi Gonsui 1650-1722)

 

 

 

Bibliografia

M.Foucault “Tecnologie del sé”, Boringhieri, Torino 1992

A.Gentili, A Schnöller “Dio nel Silenzio” , Ancora, Milano 1990

P.Hadot “La filosofia come modo di vivere “, Einaudi, Torino 2001

C.G.Jung “L’io e l’Inconscio”, Boringhieri , Torino, 2012

Papa Francesco “Laudato sii”,Piemme,Milano 2015

  1. Patrizi “El polvo enamorado”, La Parola, Roma,2018

C.R. Rogers “Un modo di essere”, Martinelli,Firenze 1982

Eckart Tolle ”Il potere di adesso”, Hoepli, Milano 2013

R.Venturini “Coscienza e cambiamento”,La Cittadella,Assisi 1995

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