La guerra ci accerchia e continua ad essere presente nella nostra quotidianità. Vediamo ovunque esplosioni di bombe e echi della morte che riempiono i nostri occhi, saturano la nostra capacità di percepire i sentimenti e ci fanno abituare alla distruzione. Le emozioni evaporano e ci fanno sentire normale la violenza, in tutte le sue declinazioni.
Cresce il negazionismo, atteggiamento mentale che inquina il pensiero e riduce la percezione dei sentimenti per le guerre anche vicine ma tuttavia, sempre degli altri. Genocidio e distruzione di massa allora diventano parole esagerate, fuorvianti, malate di complottismo, inammissibili e da non utilizzare.
Ma è allora che si compie il danno peggiore, diceva Günther Anders, filosofo e scrittore tedesco: diventiamo incapaci di partecipare con i sentimenti alle disgrazie altrui, non più in grado di elaborare il lutto per i morti quotidiani e ci scopriamo “analfabeti” delle emozioni, inabili all’empatia.
Si deve lavorare su questo a casa come a scuola! Perché la guerra non si arresta rimanendo a guardare e fintanto che terniamo una distanza emozionale dagli orrori. Non arretra di un millimetro la violenza dei massacri e la disumanizzazione dell’altro, il diverso da noi, se la percezione rimane quella dell’uomo “antiquato”, come scriveva sempre Anders (L’uomo è antiquato – Bollati Boringhieri). Un filosofo ritengo assai vicino alla poetica del nostro Quasimodo che denunciava l’uomo del suo tempo ancora identico a quello “della pietra e della fionda”.

Serve piuttosto a tutti gli adulti di saper provare vergogna e colpa, percepire il rimorso collettivo per ciò che accade. È doveroso invece evitare la rimozione dei sentimenti e educare bambini e adolescenti a una diversa percezione emotiva, se vogliamo impedire il contagio del male che circola.
E poi dovremmo moltiplicare le “controparole” cioè quelle espressioni che possono aiutare a contenere il linguaggio dell’odio e ridurre la “banalità del male“ sempre in agguato, leggere e fare poesia per percepire responsabilità individuali e collettive.
In tempi come questi, famiglia e scuola hanno il grande compito di non trascurare l’attenzione sulla guerra. Genitori e insegnanti che parlino a più riprese di questo massacro che sta sotto gli occhi di tutti, che sappiano suscitare domande e non rimangano in silenzio davanti alla morte in diretta.
La scuola dovrebbe diventare un laboratorio di sentimenti. Altrimenti la normalizzazione del male e l’abitudine alla devastazione nutrono la paura e l’angoscia ma anche l’idea che ciò che succede in Palestina e in Ucraina non ci riguarda. La famiglia faccia rete con la scuola e si impegnino entrambe nell’educare all’empatia, all’attenzione e alla comprensione dell’altro, compagno di banco o vicino di casa.
A scuola si può ridimensionare l’agonismo e la competitività, diventata eccessiva, e le famiglie insistano per la costruzione di progetti comuni per la cooperazione e la solidarietà.
Mi piacerebbe da clinico e da insegnante che famiglia e scuola educassero i minori ad accogliere le paure e non a negarle. Si diventa adulti e capaci di governare i conflitti con le proprie fragilità, e si contrasta l’individualismo insegnando all’ascolto e all’aiuto degli altri.