Afragola. Femminicidio e social
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“Stai attenta ai social, qualcuno può violentare e uccidere.”  È lapidaria con questa frase la mamma di Alessio Tucci, l’assassino che a Afragola ha ucciso la fidanzatina di 14 anni. Forse un avvertimento per la madre di Martina o l’ipotesi che la storia dei ragazzi stesse andando in una direzione pericolosa e che nessuno sapeva. Se non il popolo dei social.  Perché gli adolescenti e i bambini oggi crescono “insieme” nei social media ma soli, distanti dalle relazioni reali, appartati anche se con una infinità di contatti virtuali, in quelle piazze digitali dove puoi vedere le vite degli altri e mostrare la tua, dove puoi dire quello che vuoi che e qualcuno ti ascolta, ma anche dove non ci sono sguardi né sentimenti, quanto piuttosto un turbine di emozioni senza controllo.

Questa è la realtà della generazione Alpha, la generazione silenziosa, che non dice agli adulti, a casa come a scuola, del proprio star male, perché ha paura di far star male, che si tiene dentro il disagio anche con i pari perché teme di essere presa in giro o etichettata.

Questi giovani affollano i social e si affidano ai follower per dire i loro pensieri e ciò che stanno meditando oppure le proprie ansie e i turbamenti da cui gli adulti sono tagliati fuori.  Fare attenzione ai social media vuol dire sapere che essi hanno un tangibile potere sugli adolescenti e sui bambini. Quel popolo che stabilmente vive in rete fin dai primi anni della scuola primaria, quando a pieno titolo ha a disposizione uno smartphone per far parte del gruppo classe e dai genitori che lo regalano a 6-7 anni la giustificazione (banale) che il dispositivo serva per tranquillizzarli perché credono di sapere sempre dove stanno i figli.

Nella tragedia di Martina che sembra non abbia detto a nessuno di quel ragazzotto colmo di violenza che nessuno ha notato, da lui ammazzata per un no, forse c’erano sui social i segnali del suo star male e forse anche della solitudine. Così oggi si vive nell’età dei cambiamenti e del passaggio, adultizzati precocemente e dopo un’infanzia breve e veloce.

C’è una  gioventù che tiene nascosto il suo star male e quei pensieri di sconforto e di disperazione, fino a quando il disturbo depressivo non si manifesta in forma severa. Abbiamo famiglia e scuola che non sanno riconoscere i segnali di malessere e non vede che un adolescente perde di peso e dimagrisce rapidamente oppure che si isola e si ritira dalle relazioni sociali.

Gli adulti allora devono sapere che si cresce sempre più in fretta e che abbiamo sempre più a che fare con una generazione ansiosa, isolata e in solitudine che con un grande bisogno di essere vista e riconosciuta ma che si affida ai social che sono surrogati di socialità e di visibilità. Devono saper riconoscere il potere della tecnologia e preparare i figli ad un uso consapevole dei rischi che si corrono. Altrimenti il malessere giovanile si allarga e se non ci si misura con un’educazione adatta ai tempi che viviamo e tanto meno con la prevenzione si finisce per non chiedere a gran voce alle istituzioni e allo Stato di investire di più nella salute mentale dei giovani.

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