Pasqua come passaggio e cambiamento
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La parola Pasqua deriva dall’aramaico “pasah” che significa “passare oltre”. Per gli ebrei è parola che porta la memoria della liberazione dalla schiavitù d’Egitto ma anche festa del cambiamento e del passaggio da ciò che finisce a ciò che inizia.

È metafora del transitare dalla morte alla vita e dalla sofferenza (in greco “Pathein”) alla gioia che allude al ritmo vitale dell’esistenza in quanto nascita, morte e rinascita.

Questa narrazione paquale rimanda alla ciclicità della vita che si rinnova e si trasforma come ogni elemento della natura. E non è un caso che la Pasqua nel mondo cristiano si celebri all’inizio della primavera, il tempo in cui la natura si risveglia e, nonostante le ferite inferte, ritrova una nuova energia dopo il lungo inverno.

Enorme è la valenza psicologica della parola Pasqua che è rinascita interiore e passaggio dalla prigionia della sofferenza alla libertà dal dolore.

“La nostra libertà non sta fuori di noi, ma in noi” scrive Jung (Libro Rosso Ed. Bollati Boringhieri) e intende che non c’è liberazione esterna se prima non ci siamo liberati dalle catene interne. Poi aggiunge che “La libertà interiore si crea solo mediante il simbolo”

Così le celebrazioni del periodo pasquale, in particolare nella tradizione cristiana, sono per lo più rappresentazioni simboliche che rimandano alla ripresa generativa la quale fa seguito alla pausa forzata da una ferita lacerante oppure da un’esperienza di trauma fisico o mentale.

La “resurrezione” invece per il cristiano, è simbolo di uscita dal “male”, ma per tutti dovrebbe essere anche il tempo della riflessione e ricerca di senso per ciò che accade. È ciò che serve per comprendere la sofferenza e che ci permette di curare la ferita.

Un passaggio che trasforma e rigenera se riusciamo a cogliere l’accadimento in sé e se siamo in grado di ascoltare e osservare il dolore della ferita, simile alla trafittura di lama con cui nel Cristo è stato lacerato il costato. Ferita che ha colpito il corpo e l’anima in un punto vitale.

L’iconografia della Pasqua cristiana ci aiuta a cogliere il transito verso la rinascita, quello che ci libera e non intrappola l’esistenza in un dolore interminabile, ma porta con sé la cura che è speranza e nuova fiducia. Il Cristo della Via Crucis, che di stazione in stazione cade e si rialza con la croce sulle spalle e la corona di spine, ricorda invece quanto il dolore richieda la fatica del “cammino” da compiere per ricucire i lembi tagliati delle ferite che ci appartengono.

Infine il tempo pasquale, anch’esso simbolico, quello dei tre giorni del Cristo sepolto, indica la necessità di sostare nel dolore prima di andare oltre la “morte” e “resurgere”. È il tempo che serve sempre per scendere agli inferi, al luogo che tutte le mitologie considerano come non-permanente ma zona di attraversamento e purificazione.

È la valenza del “sepolcro” in cui dobbiamo restare fermi come in un bozzolo per poter compiere la personale trasformazione, esplorare le ferite interne e ricucire i tessuti lacerati da cui, per metamorfosi, è possibile uscire rigenerati

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