Coltivare la speranza

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Se c’è una parola che nei giorni natalizi e di fine d’anno ricorre più di frequente, questa è la “speranza”. Un termine energetico e augurale che già nella radice “spa”, di provenienza sanscrita, contiene l’idea del movimento, quello che spinge ad andare verso una meta anche quando non si vede o non si conosce.

La speranza è un sentimento, o meglio, un sentire dentro e un vedere al buio cose che normalmente non si possono ascoltare né osservare, un percepire una realtà diversa senza essere allucinati. Serve per camminare e desiderare cose. Ha a che fare con la fiducia e l’entusiasmo ed è qualcosa di molto vicino al sentirsi forti e potenti. È un restare bambini che sognano e, da adulti, come dice Fulvio Scaparro nella sua rubrica “Il sennò di prima” continuano a vedere Babbo Natale che porta doni senza pensare che sia una bugia da raccontare ai piccoli.

La speranza non è un imbroglio se contiene progetti e obiettivi. Può apparire così nelle oscurità della sofferenza o della disperazione. “O speranze, speranze, ameni inganni della mia prima età!” scriveva Giacomo Leopardi ne “Le ricordanze”. Ma, come ammette il poeta, servono per crescere. Ce n’è bisogno per desiderare, progettare, identificare le mete e sognare il futuro. La vera speranza è una compagna di viaggio che sostiene, anzi fa andare avanti con determinazione se non addirittura con ostinazione.

È una “bambina ostinata” dice don Mazzi in un suo recente libro che lui, sognatore notturno e centenario, sente come prova dell’infinito che c’è nell’individuo. In ognuno di noi. Anche se assomiglia alla fede, la speranza per don Antonio è svincolata dai “contenuti che vengono proposti dall’esterno”. La sua speranza è tutta umana, fatta di desiderio, magari quello che completa la fede e che con il tempo cresce, ma soprattutto che trasforma e fa “intravvedere” nuove, possibili, certezze.

Il problema, caso mai è quello di come coltivare la speranza e trattenerla dentro, come nel mito del vaso di Pandora, che la conteneva e che rimase agli uomini come conforto e sostegno. Di certo è necessaria distinguerla dall’illusione e invece mantenere attivo quel “circuito della ricerca” che secondo i neurologi ha la sua sede nell’ipotalamo. È proprio quell’energia che si sprigiona quando “ricerchiamo” che, oltre al piacere, sappiamo potenzia i processi terapeutici e di rinascita.

Abbiamo bisogno di questa speranza per risollevarci dalla fatica del vivere e non illuderci che tutto cambi in fretta e il male se ne vada rapidamente lontano.

Lo dovremmo sapere adesso che veniamo da un tempo di canzoni urlate dai balconi con quel mantra illusorio dell“Andrà tutto bene!”, peraltro molto simile al bisogno ricorrente dell’augurare ovunque “Buon anno nuovo!”. Non dico che sia inutile farlo, ma il pericolo è nascosto nel sogno della Lotteria di capodanno, quella che ci aspettiamo arrivi a cambiarci la vita nella notte della Befana.

È rischiosa la speranza che ci fa credere nella forza salvifica proveniente dall’esterno. E non dovremmo insegnare illusorie protezioni dal fallimento. Caso mai educare la speranza, potrebbe voler dire dare dignità agli inciampi e continuare a credere che dietro l’angolo ci sia sempre un nuovo obiettivo da raggiungere anche quando il dolore si è fatto lacerante.

“Nascere non basta – diceva Pablo Neruda – è per rinascere ogni giorno che siamo nati!”

Giuseppe Pino Maiolo

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