La violenza dei giovani. Che fare?

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Risse, pestaggi, accoltellamenti, rapine, parole che rimbalzano quasi ogni giorno nelle cronache e riguardano gli adolescenti. Sono le bande di ragazzi o ragazzetti, alle volte bambini cresciuti in fretta. Baby gang le chiamiamo, e sembrano organizzate come guerriglie da combattimento quando invece non lo sono. Si aggregano con un tam tam di messaggi rapidissimi che girano in rete e li trovi ovunque ormai, sotto ogni latitudine. Spaventano gli adulti sempre di più. Li terrorizzano perché non ne capiscono la ragione e li spingono a chiedere come soluzione il carcere, le punizioni esemplari, la tolleranza zero. Eppure sappiamo bene che serve a poco l’aspetto punitivo, se non c’è un’azione educativa di prevenzione primaria e secondaria che è quella di prevenire del rischio di recidive.

È il disagio che va compreso. I comportamenti violenti spesso sono un rituale per essere ammessi nella banda e accettati nel gruppo. Oggi non si sfida più  l’autorità e i comportamenti trasgressivi sono scomparsi perché non ci sono più limiti da rispettare. Un tempo le azioni di forza riguardavano le relazioni con gli adulti e servivano per mostrarsi grandi, ormai cresciuti. Serviva per avere lo sguardo di ritorno del genitore. Mentre ora le nuove generazioni cercano lo sguardo dei pari, dei compagni. Interessa la loro approvazione, il loro riconoscimento la ricompensa in termini di accettazione e accoglimento nel gruppo. Cercano notorietà. È qui la sfida.

Senza giustificare nulla e nessuno, dovremmo però metterci un po’ tutti a pensare a quali alternative ci sono alla violenza e contenere la tendenza che questi adolescenti  arrabbiati e incapaci di gestire ciò che provano, partecipino sempre di più a riti collettivi che esaltano le prodezze oggi chiamate challenge, sfide eccessive, e finiscano per alzare tiro..

Ai genitori direi che ogni volta, di fronte alle cronache delle quotidiane violenze, ma anche con fatti meno gravi, dovrebbero affrontare l’argomento con i propri i figli anche quelli distanti anni luce distanti dalla violenza. Dovrebbero parlarne a tavola mentre si mangia o si guarda la TV. Farebbero bene se chiedessero ai figli cosa ne pensano e quali emozioni possano aver provato le vittime. Anche a scuola bisognerebbe parlarne. Più gli adulti tacciono e più fanno passare l’idea che non è accaduto granché anche perché spesso dopo qualche giorno tutto cade nel dimenticatoio.

Naturalmente è giusto intervenire sempre quando un figlio commette qualche azione offensiva oppure eccessiva. E’ compito del genitorie aiutare il figlio a crescere come soggetto sociale che sa assumersi le responsabilità delle proprie azioni. Il bullismo, in crescita, ha bisogni di adulti che stimolino i minori a capire i propri gesti offensivi e prepotenti. Hanno bisogno di essre aiutati a potenziare l’autocontrollo e stimolare quelle aree cerebrali, come i lobi prefrontali, che sono ancora in via di sviluppo.

Aiutiamoli anche con il nostro esempio. Il nostro modo di fare insegna molto di più delle parole. Anzi diciamone poche di parole, perché tante confondono o non arrivano. Parliamo con gli occhi e con lo sguardo. Un tempo era così che accadeva. Bastava che una madre o un padre si fermassero, tacessero un attimo, ma guardassero intensamente un figlio che si stava comportando male perché questo capisse. Riappropriamoci dell’attenzione da dare loro, perché è quello che cercano.

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