La medicina narrativa. La narrazione come terapia
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Di che si tratta?

Da molto tempo è noto che la scrittura può avere un valore terapeutico: io, che insegno all’Università della Terza Età da più di venti anni, consiglio sempre agli iscritti di raccontare a figli e nipoti la propria storia, oppure di scrivere aneddoti e ricordi da tramandare. E’ indubbia l’utilità di tenere sveglia la mente, anche rivivendo episodi del passato che, per effetto domino, ne suggeriscono altri.

Ma la medicina narrativa è un’altra cosa: ne hanno parlato e scritto due professoresse statunitensi, Rita Charon – docente di Medicina Clinica presso il College of Physicians and Surgeons della Columbia University di New York– e Rachel Naomi Remen – professoressa presso l’Osher Center of Integrative Medicine dell’Università della California, a San Fancisco – che hanno chiarito subito che non si tratta di un nuovo settore della Medicina, ma semplicemente di un modo per rendere più profondo il rapporto fra medico e paziente. In sostanza, si tratta di far vivere un rapporto umano, bilaterale, in cui il medico sia pronto ad ascoltare e forse anche ad imparare.

Il paziente, o un suo familiare, o un suo amico, racconta la sua storia scrivendo ad esempio un racconto, una lettera, una poesia, dando dunque un valore aggiunto alla semplice descrizione di un malessere, inserendo nel rapporto medico-paziente aspetti psicologici, sociologici, antropologici. Il racconto naturalmente può anche essere orale, intervallato da gesti, sguardi, silenzi, può essere un elemento facilitatore per recuperare un benessere perduto.

Charon, spinta dall’esigenza di comprendere le storie dei suoi pazienti, nel 1999 iniziò un dottorato di ricerca in Letteratura inglese, sempre alla Columbia University: ascoltando con attenzione e disponibilità i racconti dei pazienti, si rese conto che, come medico, stava diventando migliore; capì che, conoscendo il loro vissuto, avrebbe potuto aiutarli nell’affrontare momenti difficili e dolorosi; si convinse che in tal modo avrebbe finito per conoscere i pazienti non solo come medico, ma addirittura come se fosse un parente e, come un parente, avrebbe potuto instaurare con gli ammalati un rapporto di fiducia, empatico e rassicurante.

A questo punto, pare che le cure abbiano un maggiore successo per chi le deve “subire”, ma sembra anche evidente che l’ascolto aiuti il medico a comprendere, a ricordare, a vedere sviluppi, coincidenze, esperienze e successi inattesi.

Non è un tornare indietro, quando il medico si recava a casa del paziente e aveva il tempo di ascoltarlo; è invece far tornare il paziente ad essere il vero punto di riferimento della cura, mentre ben sappiamo che oggi la visita medica è uno stereotipato e asettico susseguirsi di atti clinici, con gli occhi del medico fissi sullo schermo del computer e le mani impegnate a scrivere sulla tastiera.

L’anamnesi può dunque diventare più accurata, il racconto  ampio e spontaneo, la diagnosi può essere più precisa e la terapia  più calzante. Sarebbe interessante constatare statisticamente se il buon rapporto fra medico e paziente riduca i contenziosi…

Ma è molto più importante sapere che nel 2009 è nata la Società Italiana di Medicina Narrativa (SIMeN) che si propone “l’obiettivo di promuovere il dibattito e la ricerca scientifica sulla Medicina narrativa”. Successivamente, nel  giugno 2014, l’Istituto Superiore della Sanità ha organizzato la prima Consensus Conference sulle “Linee di indirizzo per l’utilizzo della medicina alternativa in ambito clinico-assistenziale, per le malattie rare e cronico-degenerative” . E per promuovere la medicina narrativa, è nato anche un concorso artistico-letterario – “Raccontiamoci con cura” –  che sicuramente la pandemia che ci sta tormentando saprà  far decollare.

Anche i medici e gli operatori sanitari possono scrivere le storie che hanno vissuto direttamente o che hanno raccolto dai loro pazienti, per ritrovare forse quell’umanesimo che, secondo Heidegger è <<meditare e curarsi che l’uomo sia umano e non non-umano>>.

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