Nato senza camicia. Il racconto della mia infanzia (3)
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di V. M.

Storia raccolta dal nostro collaboratore, il giornalista Maurizio Panizza

Terza puntata

Catturare la vipera per poche lire

L’edificio dove soggiornavamo era vicino alla piazza centrale del paese e non era chiuso con le recinzioni tipiche dei collegi, dato che quella era la scuola del paese. Spesso anche i ragazzini e le ragazzine lì residenti venivano a curiosare e dopo la titubanza iniziale fu molto facile fare amicizia anche con loro.

Tra gli assistenti ce n’era uno di nome Massimo, un romanaccio simpatico e grande appassionato di calcio che subito venne eletto a mio preferito. Con lui si organizzavano partitelle al pallone nel campetto della scuola coinvolgendo tutti, sia i ragazzi ospiti che quelli locali.

Tra il pubblico dei curiosi e dei simpatizzanti c’erano anche le ragazzine del luogo, di cui una in particolare nell’arco dell’estate divenne la mia preferita. Fra noi nacque una simpatica quanto innocente amicizia: lei si chiamava Francesca, Franci per gli amici.

Fu lei con suo cugino Sergio che mi insegnarono come muovermi in un ambiente alpino, seppur io stesso provenissi da tale ambiente, lasciato per forza maggiore in giovanissima età e pertanto poco avvezzo a muovermi tra sentieri in salita, boschi, ghiaioni e nevai.

Il problema maggiore del mio soggiorno e di quello di mio fratello consisteva nell’assoluta mancanza di spiccioli che potesse darci un minimo di indipendenza economica. Niente da fare: sia io che Franco non avevamo nemmeno una moneta, le nostre tasche erano desolatamente vuote e nessuno si premurava di metterci qualche soldino. L’unica che avrebbe potuto provvedere era nostra madre, ma di lei nulla si sapeva.

Solo la generosità dei nostri amici sosteneva le piccole spese della colonia consistenti in qualche raro gelato, dolciume o bibita.

Fu proprio Francesca con suo cugino a ventilarmi la possibilità di incamerare qualche soldo, dicendo che se riuscivamo a trovare funghi a sufficienza li potevamo vendere ai turisti.

In questo io ero totalmente dipendente da loro in quanto mi erano sconosciuti sia i funghi che i posti dove trovarli. Inoltre, ero privo di calzature adatte, le quali in seguito mi vennero regalate, ma non ricordo più da quale mano generosa arrivarono.

Ma c’era anche un’altra possibilità per guadagnare qualcosa, solo che quella, rispetto alla precedente, era un tantino pericolosa. Me la spiegò Francesca senza tanti giri di parole: dovevamo catturare vipere vive da vendere poi al farmacista.

All’epoca, infatti, il siero antivipera era prodotto dal farmacista del paese e per essere tale ci voleva la materia prima, che consisteva, appunto, nella vipera viva munita della sua sacca velenifera integra e piena del veleno stesso.

Mio fratello essendo nel gruppo dei piccoli aveva giornalmente contatti con me nei tempi e negli spazi comuni, ma nelle attività programmate eravamo inevitabilmente separati in quanto spesso e volentieri i due gruppi facevano attività diverse ed anche le gite e le escursioni il più delle volte erano differenti sia per la lunghezza che per destinazione.

San Bernardo di Rabbi è situato alle porte del Parco Nazionale dello Stelvio, parco che comprende molte cime alpine, scoscese vallate con torrenti ripidi e freddi, ed anche  laghetti a quote elevate, oltre ad una varietà di flora e fauna che ha pochi eguali.

Molti itinerari si snodavano proprio all’interno del parco ed alcuni di essi furono scelti dagli assistenti come meta delle nostre gite le quali si dividevano in due tipologie: la prima, che in genere durava l’intera giornata, comprendeva le escursioni lunghe con pranzo al sacco per destinazioni d’alta montagna, compresa la possibilità di scavalcare valichi alpini. L’altra, consisteva in gite brevi di un paio di ore, compiute nelle vicinanze del paese, alle quali anche i ragazzi del luogo si potevano unire previo il permesso delle loro famiglie.

Le gite brevi erano le più chiassose ed indisciplinate in quanto aperte ai due gruppi con l’aggiunta dei locali. In quei casi gli assistenti lasciavano la corda lenta, in quanto  le situazioni reali di pericolo erano piuttosto scarse, in più la conoscenza del luogo da parte dei ragazzi del luogo deponeva a nostro favore.

Fu proprio in una di quelle gite che si verificò la cattura della prima vipera viva. Franci, Sergio ed io camminavamo in avanscoperta davanti al resto della combriccola, quando lo stesso Sergio con occhio clinico intravide da distante quella che poteva essere una vipera addormentata al sole e arrotolata ai piedi di un mucchio di pietre.

Imbastendo lì per lì il nostro piano, andammo dagli assistenti adducendo la scusa che Francesca aveva dimenticato di portarsi le bevande e che la avremmo accompagnata a casa a prenderle.

Estorcendo con l’inganno il permesso di allontanarci con la raccomandazione di rientrare quanto prima nel gruppo, ci recammo invece a casa di Sergio, dove lui prese un contenitore del latte, a quel tempo distribuito in bottiglie di vetro.

Ne lasciò all’interno solo una piccola quantità, facendo un piccolo foro al tappo in modo che seppur a bottiglia chiusa potesse passare l’aria sufficiente per l’eventuale ospite. E’ da ricordare che le bottiglie del latte all’epoca erano basse e  panciute ed avevano un collo abbastanza ampio.

Chiesi perché lasciassero un po’ di contenuto al suo interno e Francesca mi spiegò che le vipere erano golose di latte e il liquido quindi serviva per facilitare l’entrata della vipera all’interno della bottiglia.

Sergio prese allora un lungo ramo terminante con una forcella a V tagliando le estremità in modo da avere la forcella delle giuste dimensioni.

Strada facendo mentre si tornava verso il gruppo i due cugini mi spiegarono la possibile tecnica di cattura della vipera.

Tale tecnica consisteva nell’immobilizzare il rettile con la forcella qualche millimetro sotto la testa, tenerlo fermo con la pressione della forcella stessa e risalire con la mano dalla coda fino al collo della vipera in modo da immobilizzarla senza essere morsi: facile a dirsi, complicato nella sua esecuzione.

Va da sé che tale cattura può essere fatta solo su un esemplare addormentato o rallentato nei movimenti dall’esposizione al sole, perché una vipera ben sveglia difficilmente si lascia avvicinare e se ciò succede il pericolo di essere morsi è notevole.

Ci dividemmo i compiti e visto che lo squattrinato con maggior bisogno di intascare qualche soldino ero io, a me sarebbe toccata la parte più pericolosa del compito.

Sergio si sarebbe occupato di immobilizzare la vipera, Francesca avrebbe tenuto aperta la bottiglia del latte e io avrei dovuto catturare la vipera a mani nude e inserirla nella bottiglia dopo averla stordita con un colpo in testa.

Nel frattempo, mentre il gruppo si era portato avanti, noi tre giungemmo nel posto in cui avevamo intravisto il rettile e avvicinandoci cautamente arrivammo vicino a quella che si confermò essere proprio una vipera.

Con l’incoscienza tipica giovanile, frammista ad altrettanta paura, si procedette come previsto alla cattura del serpente, e grazie alla rapidità di Sergio nell’immobilizzarla e ad una superba dose di fortuna da parte mia, riuscimmo a inserirla nella bottiglia del latte e a chiuderla dentro senza alcuna conseguenza, provando così una sensazione di euforia per lo scampato pericolo e per il futuro guadagno in arrivo.

Ricongiunti al gruppo, va da sé che diventammo il motivo di interesse di tutta la comitiva. A turno tutti vollero visionare il rettile impaurito e frastornato all’interno della bottiglia – assistenti in primis – i quali provenendo dalla pianura mai avevano visto una vipera da vicino.

Rientrati più tardi in paese, corremmo subito dal farmacista che presa in consegna la bottiglia e dopo averci dato il dovuto ( non ricordo l’ammontare della cifra), ci chiese se ci interessava vedere come operava per estrarre il veleno dal rettile.

Tale proposta venne accettata con entusiasmo e grande curiosità, così, zitti zitti, lo seguimmo nel suo laboratorio.

Il farmacista spruzzò una soluzione contenente etere all’interno della bottiglia in modo da stordire la vipera, poi vuotò la stessa sul tavolo posto in mezzo al laboratorio.

Il rettile scivolò fuori dal collo della bottiglia visibilmente intorpidito e frastornato, mentre il farmacista con estrema destrezza lo immobilizzo per la testa.

Applicando una leggera pressione sulla stessa, fece aprire la bocca al rettile che mise in mostra i due denti ricurvi, nel contempo il dottore prese una provetta trasparente tappata da un sottile strato di carta e vi appoggiò sopra i denti del serpente spingendo delicatamente fino alla perforazione del foglio. Esercitando una pressione sul collo dell’animale si videro delle gocce uscire dai denti ricurvi che si depositarono sul fondo della provetta.

Contenti di quell’esperienza, uscimmo euforici dal laboratorio tornando in colonia intenzionati a raccontare a tutti i nostri compagni quanto avevamo fatto.

Ma non fu solo questo avvenimento e rendermi orgoglioso di me stesso . Molte altre belle avventure vissi in quella splendida estate, fra cui una in particolare mi restò impressa: il nostro incontro con il Patron Torriani, direttore del famoso Giro d’Italia.

Quel giorno si era in “gita lunga” che prevedeva di raggiungere Cima Cercen con successiva discesa verso Rabbi. Dopo essere giunti in vetta e aver ammirato lo splendido panorama che spaziava su molte cime e valli, nel corso della discesa si giunse a una malga della quale non ricordo il nome.

Ebbene, in questa malga trovammo una compagnia composta da famiglie con bambini al seguito, giunte fin li con mezzi di trasporto privati.

Tra di essi si trovava appunto il famoso Vincenzo Torriani, che informatosi della nostra provenienza e del lungo percorso fatto a piedi, ci prese in simpatia e notando che il nostro pasto consisteva solo in panini e acqua, offrì a tutto il gruppo il pranzo consistente in polenta calda, formaggio di malga, spezzatino di manzo e verdure cotte, innaffiato il tutto con bottiglie di latte fresco. Fu un pasto memorabile, turbato solo dalla stizza di qualche bimbo appartenente al gruppo del Patron, indispettito dalle attenzioni che lo stesso ci riservava.

Altro ricordo, tra il comico ed il drammatico, fu quello in cui caddi nel laghetto alpino.

Nella oramai consueta passeggiata giornaliera, si raggiunse il lago Corvo, a circa 2000 metri di quota, dopo una sgroppata di parecchi chilometri. Arrivati per primi, io ed alcuni compagni ci mettemmo in riva al lago.

A poche decine di metri dalla riva sorgeva un piccolo isolotto di pietra, raggiungibile da una passerella creata con delle pietre che sporgevano dall’acqua.

Con lo spirito avventuriero e baldanzoso di cui eravamo provvisti, la decisione di arrivare all’isolotto fu scontata, pertanto in fila indiana, poggiando con cautela i piedi sulle pietre scivolose, ci incamminammo con cautela, uno dopo l’altro, alla volta del piccolo isolotto.

Quando toccò a me, una volta giunto a circa metà strada, un sasso sul quale poggiavo il piede ebbe la malaugurata idea di scivolare dal suo appoggio per finire nel lago.

Le leggi della fisica vollero che il mio piede rimasto senza appoggio seguisse in acqua il sasso, e non trovando ostacoli o altri sostegni, il conseguente tonfo nelle gelide acque del lago fu la naturale conseguenza.

L’impatto con l’acqua gelida fu scioccante. Annaspai disperatamente nel tentativo di uscire velocemente dalla fredda morsa dell’acqua, aiutato dagli assistenti che nel frattempo erano sopraggiunti in mio aiuto. Una volta fuori venni colto da un tremore intenso e doloroso causato dal repentino abbassamento della temperatura corporea.

Venni immediatamente fatto spogliare degli abiti bagnati e coperto con indumenti di fortuna. Poi mi accompagnarono al rifugio che si trovava nelle vicinanze.

I gestori, gente di buon cuore, vista la situazione mi fecero sedere vicino alla stufa accesa, dove lentamente riacquistai il calore necessario e smisi il tremore forsennato che si era impadronito del mio esile corpo.

Mentre i miei vestiti venivano messi ad asciugare, fui rifocillato con polenta calda e spezzatino di carne accompagnati da una tazza di latte anch’esso bollente. Va da sé che la sera, rientrati in colonia, divenni il bersaglio di prese per il sedere da parte di molti compagni.

Purtroppo le cose belle durano sempre poco e anche quella splendida estate passò. Con le lacrime agli occhi un giorno di settembre salutai gli amici conosciuti nel breve periodo e assieme a mio fratello Franco venimmo messi sulla corriera che portava a Trento dove poi qualcuno sarebbe venuto a prenderci e portarci alle nostre rispettive destinazioni.

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