Psicoanalisi e Blues
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      Una delle esperienze che caratterizza il pensiero dell’uomo è quella di poter scoprire, stupendosi ogni volta, che le cose che ama presentano delle caratteristiche simili, qualcosa che le avvicina tra loro, anche quando in apparenza sembrano non avere nulla in comune.

Mi sono sempre chiesto cosa mai potessero avere in comune due mie grandi passioni, la psicoanalisi ed il blues, qualcosa doveva pure accomunarle, almeno per me, qualcosa che sicuramente mi riguarda negli aspetti più profondi, ma che forse può interessare anche ad altri.

L’una, la psicoanalisi, è un pensiero che nasce nella Vienna di fine ottocento, si diffonde nella civiltà occidentale mitteleuropea la permea generando una nuova visione dell’uomo, dei rapporti intra e interpersonali, divenendo una visione del mondo, una “Weltanschauung” come la definì Freud nel 1932 in introduzione alla psicoanalisi, lezione n° 35, che tanto ha influenzato e a tutt’oggi influenza la cultura, letteratura, cinema.

 L’ altra è una musica che nasce nel nuovo continente più o meno negli stessi anni, la musica blues, tra gli ex schiavi e che genera, a sua e a nostra insaputa, la musica contemporanea, quella che ci accompagna nel quotidiano, infatti dopo il blues, e dal blues verranno il jazz, il rock, il pop etc. Per alcuni autori e critici musicali il blues non è una musica ma una vera e propria “visione del mondo” una  “Weltanschauung” insomma, un modo in cui una popolazione ha letto ed interpretato il mondo in cui viveva.

Insomma due mondi totalmente distaccati l’uno dall’altro, che ci fanno dire: più distanti di così; eppure.

Sono ormai circa vent’anni che lavoro come psicoterapeuta, prima in istituzione poi privatamente, la mia formazione è psicodinamica, il modello teorico e clinico di riferimento è, ovviamente, quello psicoanalitico; ed è proprio all’interno della esperienza lavorativa con i miei pazienti che ho trovato quei punti che a mio parere accomunano la psicoanalisi ed il blues, quei punti che, proprio per quello che dicevo prima mi hanno attratto verso due mondi all’apparenza così distanti tra loro.

Questo lavoro nasce così, come una riflessione su quegli elementi comuni, che sono parte fondamentale del bisogno dell’uomo di potersi comprendere e raccontare.

La nostalgia

    ” Non come erano ma come me li immagino…”, è questo l’incipit di un bellissimo libro di Geoff Dyer  con un titolo altrettanto affascinante “Natura morta con custodia di sax”, un libro di brevi racconti sulla vita di alcuni dei più grandi jazzisti di sempre, un libro costruito come una jam session, quel tipo di improvvisazione così cara alla storia del jazz; ma se ci pensiamo bene questo stesso incipit non potremmo usarlo per descrivere il racconto del nostro paziente quando, nel nostro studio descrive e ricorda la sua storia, la sua verità.

Non come erano ma come me li immagino, ci dice il nostro paziente seduta dopo seduta, parlando delle sue relazioni profonde, della sua storia personale, della sua verità, una verità “raccontata”, spesso molto distante dalla verità “storica”, che la trascende e la trasforma.

Alcuni anni fa una paziente al primo colloquio mi disse “mio padre non mi ha mai voluto, pensi che siccome sapeva che ero una femmina non è nemmeno venuto in clinica il giorno che sono nata” la paziente aveva, nella sua verità, anticipato l’avvento dell’ecografia di una decina d’anni, il padre non conosceva e non poteva conoscere il sesso del nascituro, costruendo una realtà storica che concretizzasse la ” sua” realtà, la rendesse oggettiva e nella reificazione la giustificasse ai suoi occhi, non più dunque un esperienza affettiva soggettiva, mio padre non mi ama, ma,  ne ho le prove e posso dimostrarlo.

   Ecco allora il primo punto di contatto tra la psicoanalisi ed il blues, la “Nostalgia”, questo affetto così presente tanto nel lavoro terapeutico, anche quando si presenta sotto forma della sua negazione, quanto nel blues, ricordo per inciso che l’espressione  idiomatica americana “i got a blues” vuol dire provo nostalgia.

” In greco ritorno si dice Nòstos Algòs  significa sofferenza. La nostalgia è dunque la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di tornare” (Milan Kundera L’ignoranza, Adelphi, pg.11),uno psicoanalista americano Stephen A. Mitchell nel suo lavoro, pubblicato sugli Argonauti n° 89- giugno 2001, che s’intitola “Devi soffrire se vuoi cantare il blues” scrive “Tra i concetti più suggestivi nelle teorie contemporanee del sé…è l’idea di narrazione. Noi siamo le nostre storie, le nostre versioni di quel che ci è accaduto”, si badi bene non ciò che ci è accaduto ma la nostra versione, esattamente come la paziente di cui sopra con la sua ecografia.

Contrariamente a quello che si pensa comunemente la parola “nostalgia” è una parola recente, nasce infatti il 22 giugno 1688 ad opera di Johannes Hofer ,  giovane studente di medicina, che all’università di Basilea presenta un lavoro dal titolo “Dissertazione medica sulla nostalgia ovvero heimwehe”, la parola nostalgia nasce così per definire una sindrome specifica che colpiva i soldati svizzeri lontani dalle loro vallate in paesi stranieri e distanti.

Senza fare qui tutta la storia della parola nostalgia, per questo rimandiamo alla lettura di Prete “Nostalgia storia di un sentimento”, quello che ci interessa notare è come in tempi relativamente brevi la parola nostalgia cessi di identificare una sindrome specifica, ma diviene il termine che identifica uno stato d’animo ben preciso.

La nostalgia abbandona il luogo fisico, la nostalgia di casa, per divenire il “luogo”.

Ancora quindi, non com’erano ma come l’immaginavo.

Di questa trasformazione e delle conseguenze nella nostra cultura, che è poi la nostra possibilità di rappresentare il mondo, quello esterno e quello interno, ce ne dà dimostrazione Kant che un secolo dopo afferma che non il luogo è l’oggetto della nostalgia ma un tempo; il tempo della giovinezza.

Ma non passa molto tempo dalla sua nascita che, ad occhi attenti risulta chiaro il legame tra la “nostalgia” e la musica, così scrive Jean-Jacques Rousseau nel 1763 “C’è in Svizzera una celebre aria popolare di montagna (ranz des vaches)…Questo motivo che è in sé poca cosa, ma che fa venire in mente agli svizzeri mille pensieri relativi al paese natio, fa versare fiumi di lacrime quando lo si ascolta in terra straniera. Ha fatto morir di dolore così tanti che per ordinanza del Re è stato proibito tra le truppe svizzere”, oltre due secoli fa quindi, lo stretto legame tra la nostalgia e la musica era riconosciuto, la nostalgia era strettamente collegata al potere evocativo della musica.

Ma se questo è il significato autentico del termine nostalgia ed il suo legame, da subito, con la musica, possiamo capire meglio perché il blues sia la musica della nostalgia per eccellenza, basta pensare alla storia dei neri d’america, prelevati con la forza nella loro terra d’origine e trasportati nelle americhe, ed il loro bisogno di costruirsi, ri-costruirsi una identità, una terra immaginaria alla quale anelare di poter tornare un giorno, anche qui, non una terra reale, ma il “luogo”.

In seduta è lo stesso, il paziente ci parla di un “luogo” a cui desidera tornare, possiamo chiamarlo Eden o Eldorado o come meglio ci pare, non cambia, sempre della perduta perfezione sembra parlarci, mi viene in mente a questo proposito un paziente, grande conoscitore e amante di blues che nel suo desiderio di perfezione-fusione, spesso mi apostrofa “lei è un telepate”, dando così voce al suo desiderio inconscio  di trovare una madre magica che tutto comprende, senza parole e prima delle parole, da poter sostituire ad una madre reale che lo ha abbandonato quando aveva meno di due anni.

Il primo punto di contatto tra la psicoanalisi ed il blues è dunque identificabile, a mio parere, in quell’affetto chiamato nostalgia, quel desiderio di ritorno “a casa”, laddove per casa intendiamo quell’esperienza psichica precocissima, e per altri aspetti irripetibile, di non-separazione.

In entrambi la nostalgia perde la connotazione di “patologia” e diviene un elemento che permette il dispiegarsi della creatività e di una adeguata maturità dell’Io.

Quello che intendo dire è che la nostalgia diviene, per così dire, da un lato la traccia mnestica che utilizzeremo nella ricerca, nella costruzione di nuovi autentici affetti, e dall’altro la spinta propulsiva stessa della ricerca.

Il setting

Ma ogni affetto necessita di una struttura che ne permetta l’espressione.

Eric Clapton (per chi non lo conoscesse è un musicista blues) un giorno disse “il blues sono le dodici battute che mai nessuno ha esplorato fino in fondo”, ponendo così l’accento sulla struttura metrica che caratterizza questo tipo di musica, e sull’indispensabilità di questa struttura se si vuole fare blues, se  traducessimo questa frase nel linguaggio della psicoanalisi avremmo “il setting si trova così definito come un insieme di costanti grazie alle quali può avere luogo il processo psicoanalitico” (Etchegoyen 1986 pg.584).

Il secondo punto di contatto è quindi la struttura, o se si preferisce il contenitore, dentro cui tutto può essere esplorato.

Senza queste strutture, quella metrica caratteristica del blues, che detto per inciso ricordiamo essere “la tipica firma blues AAB, per struttura e dinamica, si concentra sull’enfatizzazione (ripetizione del primo verso), sul cambiamento e sull’equilibrio” (Il popolo del blues, pg.12, Amiri Baraka, edizioni underground), e quella psicoanalitica del setting, la nostalgia non può dispiegarsi, la storia di ognuno non può raccontarsi e in seduta come nella musica assistiamo a delle minime variazioni del racconto, minime ma non per questo poco importanti, tutt’altro!

Anche se può apparire paradossale è proprio questa rigidità formale che non solo permette, ma favorisce l’esplorazione, senza essere sopraffatti dall’angoscia.

Ricordo una paziente che rimase molto sorpresa, e anche rilassata, quando le feci notare che la durata della seduta non era determinata da quello che lei diceva o non diceva, il rispetto delle regole del setting la metteva al riparo da un compito che le appariva o troppo arduo (interessare il terapeuta), o persecutorio (se non riesco ad interessarlo mi caccerà).

Stessa cosa nel blues, se il nostro orecchio è appena un po’ allenato ne riconosciamo immediatamente la struttura musicale, all’interno della quale possiamo lasciarci andare senza perderci.

Ernest Ansermet nel 1918 diceva “il blues nasce quando il nero è triste, lontano da casa, lontano dalla madre o dall’innamorata. Allora pensa a un motivo o ad un ritmo che ama, e prende il trombone o il violino o il banjo o il clarinetto o il tamburo, oppure canta o si mette a ballare. E su quel motivo scandaglia le profondità della sua immaginazione. Questo gli fa scacciare la tristezza: è il blues”, credo che queste parole potremmo applicarle al lavoro psicoterapeutico, quando questo riesce.

La nostalgia del paziente, come quella del musicista di blues, necessita quindi di una metrica rigida e riconoscibile, per poter essere riconosciuta, tollerata, esplorata ed infine  trasformata in un elemento vitale.

Questi due elementi così caratteristici e indissolubilmente correlati tra loro dalla relazione contenuto – contenitore, portano, a mio parere ad un terzo elemento, meno evidente, forse, ma che ritengo doveroso accennare.

L’ironia

Questo terzo punto è molto probabilmente quello su cui può risultare più facile dissentire, l’ironia infatti è spesso confusa con il sarcasmo, o con l’umorismo, quando non addirittura come una forma sublimata di aggressività.

Nell’articolo citato all’inizio, dello psicoanalista americano Mitchell troviamo queste parole “Nella posizione ironica così centrale per il blues, il cantante si prende davvero sul serio, eppure non giunge a prendersi troppo sul serio”, e più avanti “E’ la caratteristica ironia del blues che ci permette a un tempo di provare pietà per noi stessi, per il controllo limitato che abbiamo sul nostro destino romantico, senza consacrarci vittime, e di imputarci una responsabilità per la nostra sorte, senza autocommiserazione. Ciò che è libero e spontaneo nelle nostre risposte a noi stessi ci fornisce il più profondo potenziale per vivere pienamente”.

In questo senso parlavo prima di adeguata maturità dell’io.

Se accettiamo questa definizione l’ironia diviene allora uno sguardo sulla condizione dell’uomo, uno sguardo che ne coglie i limiti senza rifiutare la responsabilità di se stessi.

L’ironia come figlia della nostalgia, l’una indica l’ideale da perseguire, l’altra sommessamente ricorda i nostri limiti di essere umani.

Quante volte nel nostro lavoro abbiamo faticato per aiutare il nostro paziente a comprendere la differenza tra responsabilità e megalomania, e quando all’interno di una seduta assistiamo al sorgere di questa ironia, di questa nuova consapevolezza non pensiamo forse che qualcosa di importante è accaduto, proprio lì e in quel momento?

Conclusioni

Non credo ci siano particolari conclusioni da trarre, anzi questo lavoro vorrebbe essere un lavoro aperto, un lavoro che stimoli delle riflessioni, anche su piani diversi.

Riflessioni sull’importanza di quel sentimento chiamato nostalgia, sull’importanza che riveste all’interno della cura psicoterapica, sull’importanza che ha in generale per l’uomo.

Credo che questo mi abbia attratto verso due cose così diverse come la psicoanalisi ed il blues, quel viaggio dentro di noi, che nasce, e non può non nascere, che dalla nostalgia.

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