Perchè non insegnamo l’empatia?
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E se insegnassimo l’empatia? Se introducessimo questa materia scolastica per insegnare ai bambini a riconoscere i vissuti dell’altro? Penso ci aiuterebbe a combattere l’individualismo crescente della società e ridurre freddezza emotiva e indifferenza con cui vengono compiute le azioni più efferate. Vedi i fatti di Colleferro.

Perché l’aumento della violenza e la diffusione delle parole dell’odio che stanno attraversando la realtà sociale, sono decisamente collegate all’incapacità di provare empatia. Lo dimostrano molti studi con i quali si ribadisce che è fondamentale far crescere il senso di responsabilità morale e la capacità di cogliere la sofferenza altrui. Ma per insegnare i comportamenti empatici dovremmo cominciare col togliere di mezzo quel “fatti gli affari tuoi” che rimane il modo con cui ai bambini insegniamo il disimpegno e l’indifferenza invitando a girare la testa dall’altra parte.

Qualcuno dirà che non si insegna ma si educa all’empatia perché è un’abilità presente da tirar fuori, non qualcosa da mettere dentro. Caso mai si sviluppa. Ed è così. I neonati, di fatto, di fronte al pianto di un altro bambino reagiscono piangendo a loro volta. Si chiama “contagio emotivo” ed è reazione immediata e innata che la ricerca scientifica, scoprendo i neuroni a specchio, ha indicato come la funzione precoce che consente di imitare e condividere gli stati d’animo altrui.

Empatia è parola greca il cui significato è “sentire dentro”. Una dimensione particolare di partecipazione e di reale vicinanza che, come dicono gli inglesi, ti fa sentire dentro perché “ti metti nelle scarpe” dell’altro. Non è un “farsi carico” dei sentimenti altrui per eliminare la sofferenza, quanto un riconoscerla e avvicinarsi senza restare indifferenti. È un contatto non razionale ma emotivo, immediato e non costruito che ti fa vibrare insieme alla persona che ti sta di fronte perché prima di tutto riconosci le tue emozioni e poi percepisci le risonanze comuni.
Per questo la comunicazione empatica è immediata, più corporea e non verbale che fatta di parole e pensieri. Per nulla semplice ma, proprio per questo, assolutamente da sviluppare e allenare in quanto è dotazione che col tempo e con i particolari modelli sociali che abbiamo, può attenuarsi o spegnersi.
In effetti ad osservare il fenomeno sempre più diffuso del bullismo reale e virtuale che, come molti studi hanno documentato, è collegato a bassi livelli di empatia, si rende evidente il fatto che il bullo non è capace di preoccuparsi di ciò che prova l’altro. Non percepisce lo stato d’animo della vittima e l’unica lettura possibile sembra essere il divertimento e il piacere che gliene deriva dalle azioni prevaricatrici perché con esse si pone al centro dell’attenzione.

Fin tanto poi che faremo prevalere nell’educazione il meccanismo della motivazione egoistica e del personale tornaconto, avremo scarsa partecipazione emotiva o indifferenza, di conseguenza distanza da possibili azioni di aiuto. Il rischio è che non aumentino solo i bulli ma anche gli spettatori passivi che guardano, magari filmano, ma non intervengono e non dicono parola.

Nel mio frequente andare nelle scuole per affrontare il bullismo con i bambini e gli adolescenti scopro ogni volta con grande sorpresa la difficoltà che essi hanno a dire ciò che provano dentro. Non sanno descrivere quale stato d’animo vivono sia come vittime che come spettatori. Poveri o peggio ancora analfabeti di emozioni mi dicono solo che il loro è divertimento e scherzo!

Per questo sostengo che a scuola ma anche in famiglia, si debba insegnare l’empatia. Che serve a conoscere il nome dei sentimenti e mettere in grado i bambini di avere le parole per dire quello che si prova. Ma non basta insegnare. Serve educare che vuol dire trasmettere, partecipare e condividere, e non solo con le parole. E’ prima di tutto dare esempio.

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