La scuola sta per concludersi dopo un anno infinito di stop and go, di presenza e distanza. Un anno difficile per tutti, studenti e insegnanti, che ha visto crescere il malessere dei minori e, della scuola, ha reso visibili le difficoltà e i nodi nevralgici, soprattutto di tipo educativo.
Forse a questo mira allora il Piano governativo per la Scuola estiva che speriamo sia aperta non solo al recupero degli apprendimenti mancanti di quest’anno interminabile di Covid, ma orientata a laboratorio per la crescita.
Una scuola dove, diceva don Milani, chi insegna, non deve preoccuparsi del “come fare scuola”, quanto piuttosto del “come essere per poter fare scuola”. Questo, a mio avviso, è il vero “ritorno alla normalità” dopo il subbuglio dei vari lockdown.
Si tratta di dare un senso nuovo al cosa significa stare dentro una relazione complessa quale è quella dell’insegnare, cioè il lasciare segni, e dell’educare che vuol dire tirare fuori. Un binomio difficile da coniugare, divenuto enorme con la pandemia che ha scardinato le regole dell’agire scolastico.
Per l’incremento del disagio giovanile abbiamo incolpato la DAD che di limiti ne ha ma non è il male assoluto. Ha messo a dura prova tutti, ma dovrebbe aver fatto capire anche che i “saperi” vanno continuamente rinnovati perché non si insegna né si educa sempre allo stesso modo e con uguali parole. Insegnare online è profondamente diverso dal farlo in presenza. Richiede competenze nuove e consapevolezze poco sviluppate a scuola.
Il malessere tra gli adolescenti che ascolto e che mi chiedono aiuto, è fatto di sconforto e vuoti, di solitudine profonda e di angosce che non trovano condivisione. Di tutto questo non è responsabile solo la variazione del setting scolastico ma, credo, quel presente mortifero che ha fatto da contorno alla vita in questo intero anno, senza che la scuola sia stata in grado di offrire possibilità concrete per l’elaborazione dei vissuti angoscianti.
È possibile che l’aumento del disagio psichico abbia più a che fare con questo vuoto di condivisione tra pari che la scuola, come spazio organizzato e di confronto, consente.
Mi pare che oggi faccia star male di più gli adolescenti quel dolore interno a cui non sanno dare significato e che non sanno affrontare. Da quel che vedo continuamente c’è una sofferenza fatta di insonnia e ansia, di attacchi di panico diffusi, di azioni violente e autolesive e di frequenti pensieri di morte.
La scuola intermittente della pandemia, in quanto rito quotidiano forzatamente sospeso, li ha privati anche di un possibile momento di riflessione sul presente e sul futuro dell’esistenza sia individuale che collettiva. E, come dice Gustavo Pietropolli Charmet, in questo frangente ha perso un’occasione preziosa di parlare della morte, che in adolescenza è tema presente più di quanto si creda.
La scuola rinnovata, dovrebbe essere quella che affronta ciò che è scabroso e dolente, che orienta chi si trova ad essere disorientato nella fase dell’esistenza in cui c’è più spaesamento.
Una scuola che, da qui in poi, sappia valorizzare anche l’insegnamento a distanza e dove i docenti attrezzati di competenze specifiche, siano in grado di ascoltare il dolore della vita che accade e capaci di narrare non solo il passato ma di insegnare anche il futuro e la speranza.