Dalla paura alla paura. Dal timore di un nemico invisibile e sconosciuto che ci minacciava, e minaccia, nel giro di qualche giorno siamo passati a un nemico conosciuto che invade e distrugge. Angosce apparentemente diverse ma dove è uguale lo sconforto che ci attraversa mentre osserviamo da vicino la guerra, bombe e esplosioni, città devastate e uomini in fuga.
Tutto questo fa paura che è pure un sentimento utile, biologicamente necessario e salvifico perché di solito ci fa scappare o ci porta ad agire. Ma che può destabilizzare. Con la paura possiamo recuperare la vulnerabilità dimenticata ma se cresce senza controllo esonda, genera mostri e paranoie o diventa panico, angoscia e poi rabbia. Escalation di sentimenti difficili da gestire, ingombranti come non mai. Spesso rimossi e, come la polvere, nascosti sotto il tappeto della coscienza.
Da qui la rabbia che si fa odio e l’angoscia che diventa terrore e riproduce a ciclo continuo la violenza, quella verso il mondo o verso noi stessi. Il risultato, uno dei tanti per la verità, è anche la giustificazione del conflitto, la necessità delle armi o delle azioni falsamente preventive sintetizzate nella frase latina “Si vis pacem, para bellum”. Parole che confliggono con il termine “pace”. Anzi ne destituiscono il significato e rinforzano l’idea comune che senza arsenali militari e senza eserciti, non ci possa essere sicurezza sociale.
In nome di questa illusione giustifichiamo l’odio individuale e collettivo, lo riversiamo su qualcosa o qualcuno ritenuto responsabile della nostra precarietà e del dolore che ci affligge, quando invece è ancora l’incapacità di costruire strumenti realmente pacificatori utili a gestire i conflitti che ci dovrebbe interessare. La mancanza di questa prospettiva ci sta facendo regredire come società civile e ha ridotto il senso di comunità e di solidarietà.
Invece ci portiamo appresso la paura, che è soprattutto quella della morte in quanto, diceva Freud, è l’unica che ci accompagna per tutta la vita. La conosciamo dalla nascita e la scopriamo fin dal primo vagito quando sperimentiamo il vuoto e la solitudine.
Una paura che genera insicurezza e se lievita, compromette la fiducia in noi stessi e negli altri. Non è un caso che le fiabe, narrate nei millenni agli uomini e poi ai bambini, parlino sempre di questa emozione evolutiva, necessaria per adattarci.
Scriveva Verena Kast, analista junghiana tra le più prolifiche nello studio della fiaba, che non ce n’è una di queste narrazioni che non racconti la paura. Ma la fiaba non dice che la si supera con un atto di coraggio, quanto piuttosto con l’inventiva, la creatività e con la forza della resilienza. Energie che insieme alla curiosità ci fanno scoprire cose nuove, alimentano la voglia di vivere e la speranza di costruire un futuro rinnovato.
Tutto, nella fiaba, sta dentro quel “lieto fine” che non è una facile conclusione consolatoria, ma il risultato che l’eroe ottiene con l’impegno messo per superare le prove e costruire il cambiamento. Allo stesso modo oggi c’è bisogno di uno sforzo per contenere il contagio dell’angoscia. Ci serve coltivare il pensiero divergente e creativo che può difenderci anche dalla spettacolarizzazione della sofferenza fatta dai media. Senza per questo colpevolizzare l’informazione, abbiamo bisogno di anticorpi nella psiche per volgere al positivo il male.