I conflitti, le guerre e le parole
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Ci sono parole con cui descriviamo e narriamo la realtà che in certi momenti ci appartengono di più. “Conflitto” e “guerra” adesso sono termini usuali perché il martirio della popolazione ucraina e la devastazione della sua terra in queste settimane sta prevalendo su tutto.

Non è l’unica guerra che si combatte nel mondo ma questa è prossima, vicina di stanza e ci invade di terrore.Ma usare queste due parole come sinonimi per ciò che accade tra Russia e Ucraina è fuorviante perché si tratta di una guerra devastante, di violenza distruttiva, non di un conflitto che nell’etimo vuol dire urto o scontro, dove è presente il concetto di incontro tra due parti che cercano un punto in comune.

Di certo il conflitto è luogo di opposizione e aggressività dove però si compie uno sforzo di adattamento per trovare soluzioni condivise. Sicuramente si tratta di un bivio dove, guardandosi ancora negli occhi, le parti in contrasto possono scegliere la ricerca delle ragioni dell’altro oppure di farsi la guerra. Quest’ultima, in effetti, è antagonismo, aggressività finalizzata alla distruzione.E qui entra in campo il termine “aggressività” che è parola ricca di significati che non va ascritta esclusivamente alla violenza in quanto, dal latino “adgredior”, significa avvicinarsi o andare verso.

Di fatto è energia che muove dal conflitto e, a seconda della direzione che scegliamo, può diventare forza che avvicina all’altro per cooperare, dialogo costruttivo, oppure tendenza e comportamento distruttivo che nasce dall’antagonismo e dalla competizione e si nutre della paura di soccombere. In certe situazioni si attiva una risposta primordiale determinata dal cervello rettile o arcaico che è struttura preposta alla risposta immediata di attacco o fuga. È la cosiddetta intelligenza primitiva che si esprime nella locuzione medievale “Mors tua vita mea”.

Ed è la guerra, cioè il fallimento della gestione del conflitto, l’allontanamento dal luogo del confronto in quanto manca il desiderio di conoscere le ragioni dell’altro e l’interesse a cercare un punto di convergenza. È il posto in cui non si genera nulla, se non morte e devastazione. Ugo Morelli, attento studioso delle varie forme di conflittualità nel suo prezioso “Il conflitto generativo” (ed. Citta Nuova) sostiene invece che il conflitto se gestito e affrontato bene genera nuove risorse e consente soluzioni capaci di trovare alternative alla distruzione senza produrre vincitori e vinti.

Allora per coltivare la pace non serve preparare la guerra come sostenevano i latini, ma è fondamentale imparare a gestire in maniera efficace il conflitto, saperlo scomporre e ricomporre, so-stare dentro, non rimuoverlo o negarlo.La ricerca sulla conflittualità umana che ha molti aspetti ed è individuale, di coppia, relazionale e collettiva ci mostra quanto uno dei pericoli più grandi sia la rimozione del conflitto, o peggio ancora la sua negazione.

Evitare il confronto con se stessi o con l’altro non risolve nulla, viceversa lascia che la tensione interna aumenti a dismisura. Meglio conoscere le regole della negoziazione e la funzione della mediazione. Più ancora, per rendere inutile la guerra abbiamo bisogno di una precoce educazione alla gestione dei conflitti da avviare già nelle scuole dell’infanzia e primarie con cui sviluppare una cultura del confronto e del dialogo.

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