Tra il preoccupato e l’arrabbiato molti genitori si chiedono che fare con i figli che, ancor più di ieri catturati dai loro dispositivi, passano un tempo infinito a incontrare il mondo delle relazioni virtuali e soprattutto a giocare online. Si domandano con ansia quale atteggiamento tenere e interrogano gli specialisti su cosa sia giusto fare. Lasciarli continuare in queste pratiche oppure sottrarre loro con la forza i dispositivi? C’è da riflettere in questo tempo di estese contraddizioni.
Perché sono gli adulti che fino a ieri insistevano sul pericolo dei dispositivi e in questi ultimi mesi hanno rivalutato la tecnologia per lo smart working e la didattica a distanza. Ma sono anche i genitori afflitti dalla paura per questa diffusa iperconnessione dei figli a cui proprio negli ultimi mesi è stato riconosciuto il dovere di stare in rete, “andare” virtualmente a scuola, interagire con prof e compagni e comunicare in forma digitale. Preoccupati sì, ma pensarli già malati, questi ragazzi, sarebbe un errore. Non sono degli isolati sociali, ritirati nel loro guscio, distanti dal mondo reale. Potrebbero diventarlo ed è giusto chiedersi dove sono. Ma gli adolescenti iperconnessi vivono semplicemente il loro tempo. Hanno il diritto ad essere connessi e digitare perché il loro linguaggio, quello con cui comunicano in prevalenza è fatto più di immagini che verbale.
La distanza generazionale tra giovani e adulti si misura proprio su questo. Di certo anche la passione, tutta rinnovata da una tecnologia pervasiva, per il net gaming, il gioco in rete, fa vedere quanto è lontana l’odierna adolescenza dall’adultità vera, non solo quella anagrafica. Oggi non sono più i conflitti tra genitori e figli che tempo addietro laceravano i tessuti relazionali della famiglia, ma i profili di una quotidianità tecnologica che segnano la differenza tra le generazioni. Sono i modi con cui il gioco in rete può appassionare e offrire atmosfere e ambienti fantastici, emozioni immediate e adrenaliniche. in ogni caso sarebbe un altro sbaglio temere che queste diffuse passioni possano produrre in maniera automatica dipendenza.
I ragazzi già dipendenti dai videogiochi o che rischiano, li vedi perché a prescindere dalla compulsione, sono isolati, non hanno amici e nemmeno un profilo su un social. Giocano per scaricare la loro rabbia che altrimenti può trasformarsi in violenza agita che pure, in qualche caso, diviene manifesta. Sono i ragazzi arrabbiati quelli che rischiano di più, quelli che hanno accumulato nel tempo e per varie ragioni una quantità notevole di collera malgestita e di sentimenti violenti a cui spesso sono stati costretti ad assistere. A guardarli bene li ritrovi dentro contesti familiari disarmonici, dove prevale la conflittualità delle relazioni interne sui rapporti affettivi che possono garantire lo sviluppo. Togliere loro d’imperio, la possibilità di giocare è rischioso. Molto pericoloso.
Meglio rendersi conto della situazione evolutiva di oggi che fa crescere un po’ tutti con meno risorse e i ragazzi faticano a diventare grandi. Allora si fermano. Si incagliano nelle varie forme di dipendenza quando prevale il vuoto delle altre comunicazioni o è carente la forza degli affetti che sostiene la fiducia e da sicurezza nel momento in cui si devono sciogliere le cime per salpare in mare aperto.
Il “da farsi” degli adulti è prima di tutto quello di non colludere con l’universo giovanile, non essere pari con loro, amici e compagni di avventura, ma offrire differenze significative che permettono un confronto costruttivo tra le generazioni. Dare sponde, regole e limiti. Più ancora costruire con loro ponti, mediazioni. Negoziare e trovare compromessi sono, in questo momento, gli strumenti educativi più utili per far diventare grandi.