Un ponte come metafora. Per tenere insieme gli opposti
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C’è un’emozione intensa che contagia tutti davanti al Ponte Genova San Giorgio. Anche da lontano. E non è solamente l’evento che richiama alla memoria il lutto e la distruzione da cui, come dice Renzo Piano, risorge quel ponte. Nemmeno l’imponenza del ponte che come costruzione umana ti affascina sempre per la bellezza della sua ingegneria. 

È il nome stesso che è metafora di una sfida, narrazione di un bisogno umano, umanissimo, di tenere insieme ciò che è diviso o avvicinare gli opposti. Come direbbe Nietzsche è l’uomo stesso che si narra: ”La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo”.

Così ogni ponte, grazie alla sua struttura, è rappresentazione volta a superare il passato che attraversa il tempo e lo spazio. Quello di Genova non nega il crollo e non cancella la tragedia o la negligenza umana, non attenua il dolore, ma assomiglia a un percorso di cura che mantiene visibile la ferita, come fa ogni cicatrice, e ti fa andare avanti, ti sostiene nel viaggio.

Il lutto, ci ricorda ancora Piano, non si può eliminare né dimenticare. Si può solo elaborare e il ponte appena finito, restituito all’uomo, potrà avere questa funzione: ridare dialogo alle parti dolenti facendo ri-trovare uno sguardo lungo, che possa andare al di là del confine.

Del resto ogni ponte non cancella mai gli ostacoli, non elimina separazioni e fratture. Ti permette di andare oltre e di metterti in relazione con ciò che non conosci. Ti fa dialogare e comunicare con ciò che è distante, ti consente di incontrare chi sta su altre sponde senza ostacolare ciò che fluisce sotto e scorre in mezzo.

Per questo, dice la psicoanalista Rosemary Gordon, “Dove si costruiscono ponti non ci sono assimilazione né fusione o identificazione totali, ma nemmeno scissione o isolamento”.

Il ponte è  allora, la rappresentazione concreta e umana dell’unità e della diversità che possono stare insieme, degli opposti che si possono congiungere. È un comunicare anche dove le tesi sono diverse e apparentemente impossibili da conciliare, ma è costruzione di un nuovo passaggio, seppur carico di tensione, di un braccio potente che si protende nel vuoto, in bilico tra cielo e terra. È sintesi tra gli estremi con la funzione di ri-unire e ri-costruire ciò che è separato o scisso.

Non è un caso che la parola ponte abbia generato il temine “pontifex”, cioè di colui come il pontefice che costruisce ponti, ovvero sa tenere insieme l’umano con il divino, la dimensione fisica e biologica con quella psichica e spirituale. Per l’appunto la terra e il cielo, il materiale e il trascendente e dove, il ponte che vola alto sulla città, serve a coniugare la realtà di ciò che è stato col desiderio di andare oltre la sofferenza.  

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