Homo vulnerabilis. Riscoprire la nostra fragilità
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Il virus non si fa annunciare. Ti arriva dentro senza che tu te ne accorga, di soppiatto. Spesso l’ospite inquietante non lo senti e non te ne accorgi di averlo con te, se non quando i sintomi ti danno un segnale della sua presenza. Se non ti sei premunito prima, allora vai al contrattacco, ti difendi con i sistemi di cui disponi e cerchi di respingere al mittente l’odioso parassita. Questa però non è la storia del coronavirus che ci è ancora sconosciuto. È la narrazione di un’antica lotta che ha visto l’uomo combattere da sempre contro quei piccoli killer sconosciuti quanto pericolosi che lo minacciano. Molte sono state le vittorie riportate in questa guerra. Enormi i successi della virologia.

Eppure oggi il virus che arriva dalla Cina ci mette di fronte a qualcosa di nuovo: la percezione della nostra vulnerabilità. Che non è una novità, ma qualcosa che abbiamo dimenticato, presi come siamo dall’illusione di essere diventati invincibili. Negli anni abbiamo fatto crescere l’idea grandiosa di poter fare tutto, di saper allontanare la morte avendo prolungato la vita o di esorcizzarla rendendola spettacolare. Abbiamo profondamente modificato i concetti di spazio e tempo al punto tale che queste categorie fondamentali per definire il nostro equilibrio mentale, non sono più le stesse. La tecnologia digitale e le nuove modalità di comunicazione hanno alterato la loro percezione al punto tale che un po’ tutti sentiamo lo spazio non più come distanza e il tempo non più come attesa.

L’homo vulnerabilis allora si rivela d’un colpo e manifesta le sue incertezze. Per noi, sfiancati da una sovrabbondanza di terrori e di visioni apocalittiche, sembra venuto il momento di dedicare attenzione alle nostre fragilità. Le abbiamo trascurate per troppo tempo, convinti, come in una specie di delirio d’onnipotenza, che tutto fosse ormai divenuto possibile e ogni cosa raggiungibile, immediatamente.

Avvertiamo l’angoscia di non poterci più muovere liberamente e la sensazione che i nemici si possano nascondere dappertutto, perché è da questo sentimento acuto di precarietà  che si possono mettere in moto “le voci di dentro” e i “rumori” turbolenti di un pensiero persecutorio, fino a ieri illusoriamente controllato con una vigile razionalità o con la chimica.

Ora ci troviamo a dover fronteggiare la paura della morte che, pur con convinzioni errate, viaggia accanto al nuovo virus, e l’angoscia dell’insicurezza insieme alla sensazione di essere senza strumenti di difesa e di protezione. Proliferano le immagini catastrofiche che allagano la mente e producono terrore e panico. Di certo epidemia e contagio sono parole che evocano arcaiche memorie di altri passaggi terribili attraversati dall’uomo, come la peste bubbonica del XIV secolo ma, senza negare la storia, abbiamo bisogno di una rinnovata coscienza relativa al nostro essere soggetti vulnerabili, uomini e donne che contengono fragilità e insicurezze.

Ritrovare la consapevolezza socratica del “io so di non sapere” forse ci può aiutare a contenere l’illusione di avere in mano le chiavi di tutto. Con questa rinnovata coscienza possiamo accettare le ristrettezze dei comportamenti da adottare, le distanze fisiche e i necessari accorgimenti protettivi. Grazie al riconoscimento della vulnerabilità esistente, possiamo ridare valore alle relazioni e agli affetti e provare a gestire meglio quella comune esistenza fatta spesso di comportamenti eccessivi. Di certo abbiamo bisogno di rinforzare il nostro sistema immunitario che, come sappiamo anche dalle neuroscienze, è particolarmente influenzato dallo stato psichico generale e dall’angoscia, dell’isolamento sociale e dello stress. Allora ci serve ricordare la necessità di alleggerire la mente dalla paura e dall’ansia con immagini e sentimenti positivi perché continuare a gravitare nell’angoscia non aiuta. Anzi fa male alla biochimica del corpo e dell’anima.

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