Quei settecento ragazzini, e forse anche più, che nei giorni scorsi abbiamo scoperto scambiarsi materiale pedopornografico e immagini di sevizie sui bambini, ci hanno scioccato.
Dopo una lunga indagine la Polizia postale ci ha rivelato un’incredibile diffusione di foto e video di una raccapricciante violenza. Sconvolge non poco, perché eri abituato a pensare agli adulti che la veicolavano e la diffondevano. Invece la prospettiva qui è cambiata totalmente.
Abusi e torture, rapporti sessuali tra aduli e minori o con animali, scene di squartamento impensabili e difficili da visionare anche per gli operatori esperti della Polizia, sono circolati tra i minorenni, che a quanto pare non sono apparsi né sconvolti né consapevoli di quello che facevano. Come mai? È la domanda inquietante che ci possiamo fare.
È cambiato il modo di intrattenersi e comunicare delle nuove generazioni? Può darsi. Di sicuro sta accadendo qualcosa che ha a che fare con la normalizzazione e l’abitudine alla violenza, quella che porta i minori a non riconoscere la differenza tra una carezza e un pugno, tra un rapporto di amore e un abuso. Vale a dire che si è abbassata la soglia di percezione del male.
La stessa forse, che recentemente ha spinto due ragazzine di 10 anni a picchiarsi e farsi filmare dai compagni per un compenso in danaro.
E’ necessario chiederci cosa stia accadendo a figli e quale mondo stiamo consegnando loro. Una chat degli orrori come quella scoperta dalla Polizia postale dove i minori attingevano senza tanto controllo a un materiale pericoloso, privi di consapevolezza per i danni della diffusione, ci segnala una grave incapacità empatica e una terribile solitudine davanti all’onnipresente cellulare.
Per molti versi c’è una distanza inimmaginabile tra il mondo dei ragazzi e quello degli adulti e una povertà relazionale che rende i minori di oggi vittime e carnefici allo stesso tempo.
Però non si tratta di trovare le colpe della famiglia e della scuola o scoprire la trascuratezza di genitori e insegnanti, quanto piuttosto riflettere sul rapporto che hanno gli adulti con l’universo digitale e quale atteggiamento educativo usiamo con i minori.
Non è sufficiente pensare solo alle punizioni per correggere i comportamenti, ma serve sapere che siamo di fronte a una sfida educativa epocale che grava sulle spalle di tutti, nessuno escluso.
Forse è illusione quella che ci spinge a pensare di risolvere i pericoli della rete vietando il cellulare e i social ai minori di 12 anni, quando gli adulti per primi li usano con assiduità. Potrebbe servire di più una dieta digitale da applicare a scuola e a casa e pretendere, con giusta causa, che in aula così come in volo il telefonino non stia acceso.
Abbiamo però bisogno di coerenza nell’educare e di impegno adeguato alla complessità del tempo. Credo necessaria un’energia comune fatta di quella utile riprovazione sociale che prima ancora della sanzione sottolinea l’errore o l’inadempienza alle regole.
Poi c’è bisogno di collaborazione tra famiglia e scuola e di progetti comuni che aiutino la famiglia a curare di più la comunicazione empatica e la scuola a sviluppare l’educazione alle emozioni, in particolare quella che bambini e adolescenti provano online, la loro realtà più frequente.