La relazione di cura tra verità e speranza
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Quando una persona va dal medico spesso vive momenti di attesa caratterizzati da ansia e paura: “Mi troverà qualcosa che non va? Come saranno gli esami? Ci sarà una cura per me? Guarirò?” Le risposte del medico avranno un impatto importante sulla sua vita, e l’impatto dipenderà non solo da cosa dirà ma anche da come lo dirà.

Il codice deontologico, all’articolo 33 chiarisce: “Il medico adegua la comunicazione alla capacità di comprensione della persona assistita o del suo rappresentante legale, …. tenendo conto della sensibilità e reattività emotiva dei medesimi, in particolare in caso di prognosi gravi o infauste, senza escludere elementi di speranza.” Quindi il medico ha il dovere etico di trasmettere la speranza che le cure possano guarire o comunque migliorare la situazione e garantire una buona qualità di vita. Questo può aiutare il paziente e la sua famiglia a mobilitare risorse fisiche, psicologiche e sociali per affrontare il percorso di malattia, in particolare nel momento in cui viene comunicata la diagnosi di una malattia grave.Ma c’è anche un altro aspetto da considerare: la speranza e l’aspettativa positiva influenzano l’azione dei farmaci.Finora questo fenomeno è stato verificato soprattutto con gli analgesici: se un individuo è convinto che un determinato analgesico che ha assunto sia efficace, è più probabile che lo sia davvero. Viceversa se ritiene che non lo sia.

Si tratta rispettivamente dell’effetto placebo e nocebo. Vari esperimenti lo hanno dimostrato. Quando ad esempio un operatore sanitario empatico somministra un farmaco che sia lui che il paziente ritengono essere un potente antidolorifico, ma che in realtà è un placebo (sostanza inerte), vengono attivate le stesse aree cerebrali che attiverebbe un oppioide vero, come dimostrano le indagini radiologiche.

Significa che la natura ha dotato gli esseri umani di meccanismi finalizzati ad alleviare il dolore tramite la relazione ed il contesto di cura, che comprende le caratteristiche delle medicine (colore, forma, odore), il tipo di strumentazione (più è sofisticata, maggiore è l’impatto) ed altri fattori ancora.Tali meccanismi inducono la liberazione di sostanze antidolorifiche che l’organismo stesso produce, le endorfine ed i cannabinoidi. Se le aspettative sono negative, cioè se ci si aspetta che un farmaco non funzioni, aumenta l’ansia, che favorisce la produzione di ciclo-ossigenasi o di un ormone, chiamato colecistochinina (CCK), in grado di amplificare il dolore.

Cosa significa tutto questo per la pratica clinica? Che gli operatori sanitari hanno la possibilità di essere più efficaci (probabilmente un 50% in più!) se insieme alla sostanza farmacologica somministrano anche…speranza!Effetto placebo e nocebo sono stati dimostrati per i farmaci antidolorifici, anti parkinsoniani, alcuni psicofarmaci e per alcool, droga e ossigeno. Si è scoperto che questo effetto può svolgere un ruolo importante nella terapia del dolore, di alcune malattie psichiatriche, del sistema intestinale, cardiaco, polmonare; probabilmente ha un ruolo anche per quanto riguarda la risposta immunitaria.

La risposta a placebo e nocebo non è uguale in tutti gli individui: dipende da fattori genetici, dalla personalità (gli ottimisti rispondono meglio al placebo, i pessimisti al nocebo), dall’apprendimento (cosa ha “imparato” l’organismo quando è venuto a contatto con un determinato farmaco).Anche nel rapporto psicoterapico la speranza di migliorare / guarire è fondamentale per la buona riuscita della terapia, insieme alla motivazione ed alla fiducia nel terapeuta. Nella relazione di cura è quindi importante alimentare la speranza del paziente, ma dicendo la verità e senza illudere con promesse irrealistiche. Armonizzare questi tre elementi è un’arte, che dovrebbe far parte del bagaglio comunicativo di ogni caregiver.

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