La scuola moderna non ha origini antiche, l’ideologia dei Lumi prima e la Rivoluzione Francese e Napoleone poi ne dettano la partenza. E’ da lì che nasce l’idea che l’“istruzione” sia questione che riguarda l’intera nazione e non solo le famiglie di alto lignaggio. In questa tabella, da me commentata in corsivo, riporto alcuni degli obiettivi della riforma scolastica teresio-giuseppina, della seconda metà dell’Ottocento, ritenuta la “vera matrice della scuola elementare italiana”.
Evitare l’eclettismo pedagogico di maestri
giunti empiricamente all’insegnamento e adusi a passare indifferentemente da una disciplina all’altra, da un ordine all’altro di studi, senza adeguarsi all’età e alle esigenze di volta in volta proprie degli scolari.
Adeguarsi all’età e alle esigenze degli scolari doveva in quegli anni apparire rivoluzionario. Non si scordi che il rispetto per l’infanzia, per il bambino e il ragazzo in generale è un fatto più moderno di quanto si creda. Per secoli i bambini sono stati considerati e trattati come piccoli adulti.
Sono stati trovati in Francia, lungo i confini di grandi aziende agricole settecentesche, lunghe fosse comuni, piene di ossa di cani e di bambini. Ne morivano a decine, senza funzioni religiose, senza alcun segno che li ricordasse, come accadeva per i cani.Combattere la farraginosità e la casualità degli argomenti insegnati
Combattere la farraginosità e la casualità degli argomenti insegnati
La scuola ci è entrata nelle coscienze, alcune sue realtà ci paiono ovvie. È difficile per noi immaginare oggi un tempo nel quale un “maestro” “insegnava” solo ciò che voleva e che sapeva ( cioè poco), con una orizzontalità del sapere che non è certo quella che si auspica oggi rispetto alla permeabilità dei confini delle discipline. In quel tempo non aver confini disciplinari era solo probabilmente avere confusione culturale e mentale.
Ovviare alla monotonia delle lezioni.
Questa richiesta è davvero una sorta di fotografia del tempo: se il maestro non provava interesse per il suo pubblico, se non gli importava di essere capito e di insegnare, allora il suo chiacchiericcio chiamato lezione non poteva essere altro che un lungo monotono e noioso scorrere di un tempo incapace di attrarre.
Retribuire decorosamente gli insegnanti, da considerare pubblici ufficiali statali.
Sorvoliamo, tutti sappiamo perché. Questa richiesta veniva già fatta alla fine dell’Ottocento.
Rendere gratuite il maggior numero di scuole, soprattutto quelle di base.
Non lo si legga come semplice “buonismo”, unificare tutti in un grande sapere programmato era ritenuto, con lucidità, un importante investimento. Le nuove richieste di forza lavoro non obbedivano alla descrizione astratta di Marx, già da tempo le fabbriche tessili inglesi avevano capito che con l’introduzione delle macchine si avrebbe avuto bisogno di mano d’opera capace di leggere e di apprendere, o già in parte addestrata, e non insomma di semplici “braccia”.
Per raggiungere i suoi scopi quella scuola prese come modello fisico la chiesa: aula rettangolare con file di banchi e il pulpito dal quale si fa la predica, nel silenzio. Il “docente” versava nelle teste degli ascoltanti i saperi ufficiali. Senza dibattito. Ecco perché viene chiamata da alcuni studiosi “scuola del monologo o del silenzio”, e che io chiamerei “dei saperi comandati”: ti comando di sapere questo, porgimi il cranio. Non stiamo insomma ricercando qualcosa insieme.
Si era cioè, in quegli inizi, nel tempo nel quale regnava, e funzionava bene, l’idea criticata da Morin delle teste da riempire contrapposta a quella delle teste bene fatte. Ma occorre rendere omaggio alla storia e ai suoi mutamenti e vedere che anche allora si volevano teste ben fatte. Tuttavia in quel tempo le teste ben fatte erano altra cosa.
Riporto un passaggio di Melchiorre Gioia (1767- 1829): “Tutta la gioventù avrà un’educazione militare, fondata sui più solidi principi della miglior fisica e della politica. Si avvezzeranno per tempo i figli della Patria alle fatiche, e ai travagli di Marte […] Si faranno indurire ad ogni genere di fatica, a tollerare gli estremi del caldo, del freddo, della fame, della sete; se ne formeranno insomma tanti guerrieri repubblicani”[1]
Non si rischia molto pensando che quelle idee, dell’eroico soldato repubblicano, ent
ravano nelle coscienze con facilità perché già le coscienze ne erano assetate.
Tutto ciò quindi “funzionava” perché era richiesto.
Funzionava ed ha funzionato fino a pochi decenni fa. Oggi nuove richieste del sociale e della cultura che si respira rendono diverso il modo di fare nascere teste ben fatte, anche perché sono richieste fortemente contraddittorie.
Per lungo tempo stare a scuola ha voluto dire “obbedire”, e non c’è dubbio che obbedire non sia più, in generale, ciò che vogliono i ragazzi d’oggi.
Obbedire = adeguarsi a posizionamenti gerarchici che hanno acquistato il significato di realtà e normalità.
Per quanto oggi possa sembrare paradossale c’è stato un tempo nel quale nella scuola era possibile “comandare” perfino l’attenzione, e qualche ins
egnante crede che lo si possa fare ancora. Non occorreva “catturare” il gruppo classe (anche se naturalmente era possibile farlo e ciò aggiungeva efficacia all’oratore.)
Che cosa è cambiato, cosa sta accadendo e che cosa la scuola stenta ancora a vedere, abituata com’è da due secoli a vedere altro? Sono cambiate le famiglie, è cambiato il mondo in pochi decenni, sono cambiati i ragazzi, enormemente, hanno raggiunto e assimilato dignità diverse. La democrazia, vissuta, respirata, interpretata rozzamente, digerita in modo semplicistico fin dalla nascita dai nostri figli ha costruito e ha promosso il diritto, per tutti, di manifestare la propria differenza mentre il nostro tempo e le sue ideologie spingono all’omologazione.
Se immaginassi di essere un tredicenne o un quindicenne (le età in questi anni non segnano differenze drastiche) i miei pensieri potrebbero essere questi:
Non sento più, io, ragazzo, come cosa ovvia il fatto di doverti ascoltare, io ascolto più volentieri Youtube, e le altre cose di internet. Non ho più la certezza che tu dica le cose giuste. Voglio chiedere, voglio capire perché, ne voglio discutere con te, e se scopro che non è possibile, se sento che devo solo ascoltarti e fare quello che vuoi tu, se tu devi essere quella o quello che ha sempre ragione… allora lasciami stare, sto in classe per una costrizione incomprensibile, tu, insegnante, spiega pure se vuoi, ma non mi disturbare, io penso ad altro, o ti mostro, ferocemente e provocatoriamente, la mia apatia o la mia avversione.
Come uscirne? La proiezione futura è che avremo, se la scuola ce la fa, se non muore, una scuola che avrà imparato a co-costruire conoscenze, non a comandarle. Ecco allora le teste ben fatte adatte ai nostri tempi.
Ciò avverrà attraverso competenze nuove, la relazione per esempio. Le competenze relazionali, nell’epoca dei cento ragazzi per aula alla fine del Settecento non servivano. Era la gerarchia ferrea del tempo a consentire che si dicesse fai cosi perché l’altro obbedisse. Oggi tutto ciò non vale più.
Da qui un’altra contraddizione del presente scolastico: occorrono competenze relazionali a fronte di classi ancora numerose, composte da perso
ne che stanno chiedendo, ognuna di loro, un rapporto vis à vis. Il gruppo classe sta mostrando la corda. In tempi di Covid sembra che la cosa sia stata dimenticata. Non c’è articolo o discorso oggi che non metta in evidenza il rischio di perdere quell’educazione alla socialità che la classe permetteva. Si è completamente dimenticato che paradossalmente la scuola di massa chiede più attenzione all’individuo ma costringe l’individuo al gruppo, l’ossimoro che ne esce è questo: emergi restando sommerso.
Ora, questo maledetto Corona Virus qualcosa di interessante riguardo alla scuola ce lo ha mostrato, sorprendendoci. Oltre alle note scontentezze pe la DAD (Didattica A Distanza) mi ha colpito che per alcuni insegnanti (una buona parte di quelli con i quali ho parlato) la DAD ha permesso di far emergere un buon numero di ragazzi “invisibili” (quelli che in classe non parlano, non alzano la mano, non seguono, ecc.).
Credo che ciò basti per cominciare a pensare che qualcosa di buono ci potrebbe essere e che forse non dovremmo buttare via bambino e acqua sporca. Ed ecco la sfida in forma di domanda: se oggi la scuola, per sopravvivere e tornare efficace deve apprendere a negoziare gli apprendimenti e non a comandarli, e quindi deve privilegiare la relazione per quanto possibile vis a vis, quanto e come potrebbe essere utile servirsi ANCHE della DAD ? Perché non adeguare gli strumenti della scuola ai bisogni e alle caratteristiche dei ragazzi e delle ragazze? Se per qualcuno la DAD funziona, perché non utilizzarla con lui? Ignorare i progressi della tecnologia sarebbe infatti folle, diventarne succubi lo sarebbe altrettanto. Il bisogno della scuola di unificare i saperi non ha niente a che vedere col bisogno tutto burocratico di uniformare il modo di passare quei saperi.
[1] M.Gioia, “Effemeridi repubblicane”, citato in N. D’Amico, Storia e storie della scuola italiana, Zanichelli.