Quanto è difficile essere giovani
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Sono sotto i riflettori in questo riemergere del contagio. Tutti ne parlano, li osservano, li giudicano e da incuranti delle regole sono diventati pericolosi. Diffusori del virus o, per qualcuno, i nuovi untori. Sono i ragazzi della generazione Z, i “coronials” come qualcuno ha ribattezzato i giovani della movida al tempo della pandemia.

Dovremmo smetterla però di dar colpe ad altri del male che ci attornia e vedere invece come si sono comportati i ragazzi durante il lockdown, confinati d’un colpo in casa. Hanno vissuto quel tempo da reclusi, ma con senso di responsabilità e senza alcun moto di ribellione. Senza protesta hanno accettato il sacrificio e le limitazioni. Molti di loro, seguendoli a distanza e accompagnandoli nelle personali difficoltà evolutive, li ho visti capaci di entrare nella dimensione della collaborazione con la famiglia, in grado di contenere il bisogno di autoaffermazione, così fisiologico in adolescenza. Li ho sentiti davvero provati dalla separazione fisica con i pari, ma capaci di tollerare quella frustrazione e la situazione atipica della segregazione forzata.

Piuttosto che accusare, gli adulti di riferimento adesso dovrebbero valorizzare questi comportamenti. Così come andrebbe contenuta l’idea che il tempo scolastico mancante o parziale degli ultimi mesi stia producendo una generazione di ignoranti e di persone incapaci di affrontare il futuro e a cui mancano gli strumenti per progettarlo.

Forse vanno viste le responsabilità in capo a sciagurate scelte di politica economica, sociale, ambientale della generazione dei padri. Servirebbe smetterla di attribuire il disagio giovanile alla tecnologia digitale e alla diffusione dei social, spesso considerati causa del “ritiro sociale” che avanza a passi preoccupanti.  Dovremmo piuttosto riflettere sul fatto che, tolti i cortili e gli spazi di incontro, i “nativi digitali” si sono trovati un altro luogo come la Rete dove, fuori dal controllo degli adulti, si possano incontrare e fare esperienze, quelle che necessitano assolutamente per attraversare l’adolescenza lontano dagli occhi dei grandi. Lasciati però soli in questo ambiente e senza la competenza e i confini degli adulti, sappiamo i rischi che stanno correndo.

Più ancora del virus, come dimostrano gli studi sulla salute mentale nella pandemia, temo i danni possibili che possono derivare da quel crescendo di paranoia che si sta registrando, dalla perdita di senso nella vita e dall’assenza di futuro. Questo genera disperazione. Spesso è la rappresentazione negativa e spaventosa della realtà esterna che passiamo ai giovani a condurli verso quel “ritiro sociale” in crescita. Molti, ad esempio, potrebbero preferire questo isolamento non solo per far fronte al contagio, quanto per contenere il terrore del futuro e le angosce dei loro genitori. 

Insieme agli adolescenti invece, dovremo pensare e progettare spazi per loro, luoghi adeguati dove incontrarsi e portare a termine i compiti specifici dell’adolescenza Ma dovremo farli sentire protagonisti del cambiamento e della realtà che viviamo. A scuola ci sarà bisogno di coinvolgerli nella costruzione di modi di apprendimento nuovi e più adatti al tempo della didattica in presenza e a distanza.

Credo sia necessario rivedere il ruolo formativo della scuola e potenziarne la funzione educativa. Per farlo si dovrà rinunciare, almeno in parte, alla scuola delle verifiche e dei voti in favore di una scuola che coinvolge secondo il modello della cooperazione e dell’educazione tra pari. Hanno bisogno di essere educati allo sviluppo delle relazioni, dei sentimenti di tolleranza, di rispetto reciproco e comprensione empatica. Sono questi gli strumenti che la scuola del futuro deve fornire per costruire l’umano che serve quando cresce la precarietà dell’esistenza e l’angoscia per ciò che ci aspetta dalla vita.

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