Scuola. Perché non mettere le mani in pasta?
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Ve li ricordate, a scuola, i ragazzi annoiati, svogliati, che sbadigliano appena seduti? Ce ne sono, ce ne sono. Molti di più di quanto si pensi. Il fatto è che la scuola (mi riferisco soprattutto alla scuola dell’obbligo) o, meglio, molte lezioni scolastiche, così come sono impostate, non fanno per loro.  Quel dover stare in silenzio, seduti, fermi, in posizione rigida nel banco; dover solo ascoltare e prender appunti; non poter agire: tutto questo li stronca. È più forte di loro. Per questi ragazzi, etichettati con le molteplici sigle del disagio, pare ci sia poco da fare. O meglio pare che la scuola non abbia le competenze e le risorse (umane) per farvi fronte.

Ma davvero non esiste alcun rimedio? E se la scuola smettesse  di funzionare come un corso di ammaestramento per merli indiani (l’insegnate dice e tu ripeti) e divenisse più coinvolgente? Nel senso di trascinare con sé non solo le menti e la razionalità, non solo l’udito e la vista, ma anche la pancia, il gusto, l’odorato, il tatto?

Perché non pensare per loro ad un corso dedicato al cibo. Un vero e proprio curricolo, che duri alcuni mesi, un anno intero, non una semplice parentesi pomeridiana. Non teorico, ma pratico. Dove si possano mescolare la farina, che imbianca  le mani, con l’acqua e ci si impiastriccia un po’.

Con il cibo si può parlare di tutto. La storia? Da quando l’uomo con il Neolitico, ha addomesticato i cereali, fino a tutte le scoperte che hanno permesso di confezionare cibi sempre più raffinati. E la geografia dei cibi? In qualsiasi anonimo supermercato italiano oramai esiste un angolo per i cibi etnici e si può compiere il giro del mondo. La letteratura? E’ stracolma di testi che parlano del cibo (la Coena Trimalchionis di Petronio Arbitro docet).

Parlare di cibo è parlare di chimica, di fenomeni e reazioni fisiche. E i calcoli sulle quantità? E le temperature di cottura?  E il saper leggere le etichette? Per non parlare della conoscenza delle tecnologie, antiche e nuovissime,  che ne aiutano la preparazione. Forse che l’Arte non si è mai occupata di cibi? Pensiamo alle  nature morte seicentesche o anche solo a Guttuso e alla sua Vucciria. E le musiche? Idem. Non vorrei tralasciare la dietetica, intesa come sana alimentazione, il che permetterebbe di affrontare i nodi molto urgenti del cibarsi contemporaneo, troppo carico di proteine e grassi animali e di zuccheri e la necessità di una dieta pensata, critica, e del sano movimento.

Poi si tratta di lavorare, di impastare, di confezionare, di succhiarsi le dita magari, di cuocere, di impiattare in maniera attraente e creativa. E intanto si parla, di descrive quel che avviene, si “fa lezione”.

Semplice, no? Cosa impedisce di affrontare una tematica simile? A parte il momento attuale di pandemia e delle sue restrizioni, le resistenze sono molte ad iniziare dai docenti, molti dei quali ritengono che “mettere le mani in pasta” non si addica al loro ruolo. Mancano le attrezzature e gli spazi (anche se non dovrebbe essere difficile reperirli).

Manca la convinzione che questi progetti potrebbero  funzionare meglio di una lezione teorica. Mancano sperimentazioni coraggiose che dimostrino il contrario.  Peccato!

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