Le maxi-risse dei giovani. Cosa vogliono dirci?
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“A questi ragazzi non manca niente ma allo stesso tempo non c’è nulla che a loro basti”. L’ho sentita dire recentemente da un genitore a proposito della maxi-zuffa dei ragazzini sulla terrazza del Pincio a Roma. Una sintesi che colpisce perché è al tempo stesso lapidaria, precisa e puntuale e pure superficiale e discolpante.

Se leggi le cronache di quei fatti, ripetuti a distanza di una settimana sia a Roma che a Venezia con dinamica simile, ti vien da interpretare gli eventi in questo modo. Pensi che la trasgressività che assembra i giovani nella movida sia l’incapacità di adattarsi alle regole e rispettare i divieti, e ritieni che la violenza dei comportamenti giovanili dilagante ovunque, abbia semplicemente a che fare con le birre e l’alcool o con il non saper come passare il giorno. Riflessioni corrette, non c’è dubbio, che mettono l’accento sul disagio giovanile degli adolescenti quando si azzuffano sotto gli occhi di tutti con uno spettacolo mediatico sorprendente. A quel punto però, capisci che non è casuale la performance e la scena delle aggressioni. Forse un senso ce l’ha e potrebbe essere quello di tentare un’uscita dal vuoto pneumatico in cui oggi essi vivono.

Credo che questo sia il punto da cui partire per cercare significati ai comportamenti giovanili insensati. Essi, potrebbero essere manifestazioni di un malessere strisciante e profondo che contiene aspetti diversi e inquietanti. Puoi anche affermare che l’espressione della rissa violenta e dello scontro fisico oggi nasce in quel terreno di coltivazione che è la realtà virtuale e dei social. Ma non penso sia tutta la colpa loro. Accadimenti questi che possono far venire in mente le gang di realtà urbane lontane da noi come le bande criminali latine e delle grandi metropoli americane. Ma pure da queste situazioni siamo distanti e non vedo il fenomeno della emulazione collettiva. 

Mi pare invece che sia espressione del disagio collettivo che viviamo tutti da un bel po’ di tempo. Credo che la mancanza di prospettiva, l’assenza di un futuro da progettare e l’incapacità di mantenere viva la speranza non appartenga solo a questo tempo della pandemia. Stiamo dentro un tessuto sociale, culturale, educativo che da tanto non contiene prospettiva e speranza ma ti inchioda al presente con un orizzonte corto, quello del display iperpresente nelle mani di tutti. Negli adolescenti, chiamati a crescere dentro il lockdown, è spesso una sofferenza silenziosa, nascosta che alimenta l’angoscia, il terrore dell’esistenza e anche la disperazione.

In fondo, i nuovi giovani sono “tutti figli nostri”. Li abbiamo fatti crescere in contesti sociali dove è prevalso il mito del tutto e subito, della felicità ad ogni costo, del successo e della popolarità. Li abbiamo alimentati con l’idea che non si può fallire ma nemmeno inciampare. Li abbiamo sostenuti a dismisura con apprezzamenti continui dando anche alle azioni negative il titolo di “bravata”. Ne abbiamo fatto una generazione che fatica a reggere la frustrazione e sopportare il “no” o il “non adesso”. Difficilissimo per i centennials, quelli nati dal 2000 in poi, non illudersi e non essere affascinati da quella facilissima visibilità che offrono le nuove tecnologie e la massiccia influenza dei social. Attraversare la società del narcisismo e dell’individualismo non è per nulla semplice e di fronte al dolore i ragazzi appaiono sempre di più impreparati e fragili.

Non meravigliamoci allora della loro risposta violenta. Ricordiamoci che anche quando ci sembra incomprensibile perché mancante di un significato specifico o perché rivolta in maniera silenziosa a loro stessi che hanno tutto, ad un corpo da ferire o far scomparire dietro un monitor all’interno di una stanza, essa è sempre un urlo di aiuto. Fatti come questi ci chiedono risposte intelligenti o quantomeno di senso. È urgente dare ai nuovi giovani significati adeguati alla vita che li attende, valori e spazi rinnovati alla scuola, alla società, alle relazioni. Sforziamoci!

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