Quando parlo con i ragazzi che incontro un po’ ovunque e mentre ascolto per motivi diversi i nuovi adolescenti che adesso chiamiamo “face down generation”, cioè generazione china sullo smartphone, mi capita spesso di chiedermi dove sta di casa la loro identità. E come li vedo smanettare uno accanto all’altro sul loro dispositivo appoggiati ad una ringhiera o in equilibrio sull’autobus, mi domando se sono online o offline. Mi rispondo immediatamente che questa distinzione non serve più, anche se conta spiegare la differenza tra questi due modi di essere.
Oggi, mi dico, non esiste più un mondo senza l’altro ma è importante far sapere loro che c’è un confine in mezzo. Forse questa linea di demarcazione può apparire sottile e quasi inesistente, un po’ come la linea d’orizzonte sul mare che non ti fa vedere dove finisce l’acqua e inizia il cielo. Eppure ragazzi e bambini hanno bisogno di sapere che sono elementi diversi, contigui e vicini ma che non si sovrappongono mai, né si con-fondono.
Dobbiamo dirglielo apertamente e farglielo capire. Gli adulti hanno il dovere di indicare la differenza tra il reale e il virtuale e spesso agli insegnanti suggerisco di provare a preparare una lezione su questi due spazi paralleli. Perché, a mio parere, è fondamentale fare in modo che la loro identità non si costruisca solo su quel “sé sociale” che oggi imperversa.
Molti infatti, formano la propria identità sulla base dei consensi che ricevono dai post e dalle infinite immagini che pubblicano in continuazione sui social. Credono di poter essere sicuri più hanno like sui loro profili. Qualcuno, a volte, lo diventa anche. Ma parecchi costruiscono una facciata e una poderosa maschera che si sovrappone a tutto. Quando se ne accorgono si sentono naufragare. Allora mi capita di incontrarli perché mi chiedono aiuto e li trovo appesantiti da una dose notevole di sofferenza. Isolati e impauriti, con la tendenza a sentirsi esclusi, senza peraltro esserlo veramente, questi adolescenti iperconnessi confusi e disorientati, ammettono di sentirsi sotto stress, di avere grandi difficoltà a mantenere attiva l’attenzione ed essere incapaci di concentrarsi con lucidità su quello che fanno.
Più di tutto preoccupa quel “sé sociale” che si alimenta della dipendenza dai “like”. Perché è ormai chiaro che il meccanismo della ricompensa psicologica attivato dal “mi piace” funziona come potente approvazione sociale e alimenta in modo compulsivo il bisogno di replicare l’esperienza piacevole dell’approvazione.
Allora mentre prevale un “falso sé” si sviluppa la dipendenza da Internet, dai social e dall’idea di essere socialmente importanti. Dipendenza che non è per nulla diversa da quella derivante dall’assunzione di sostanze psicoattive come l’alcol e le droghe. Così non va sottovalutato il rischio crescente delle tecno-dipendenze, ma devono essere riconosciuti precocemente quei segnali di allarme che possono annunciarle. Ad esempio, non deve essere trascurato un aumento crescente del tempo trascorso online, la perdita del sonno notturno e la diminuzione di interesse per la vita offline, a cui si aggiungono eccessivi sbalzi di umore e un visibile peggioramento del rendimento scolastico.
Giuseppe Maiolo
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