“I nostri ragazzi” è il titolo di un film drammatico uscito qualche anno fa con la regia di Ivano De Matteo. È la storia di due famiglie, i cui padri sono fratelli e vivono una vita ordinaria e tranquilla, per lo meno fino a quando non scoprono che i rispettivi figli adolescenti, Benedetta e Michele, sono violenti, capaci di aggredire e uccidere un senzatetto, senza provare alcunché. È la narrazione filmica intensa e per certi versi sconvolgente di una storia al confine della realtà che però ti viene subito da associare a quella recente di Manduria dove una baby gang di ragazzini per un tempo lungo ha esercitato aggressioni fisiche e vessazioni su un sessantenne affetto da disturbi psichici.
Un fatto incredibile, che sembra puntare i riflettori sull’adolescenza di oggi priva di senso morale, la quale per noia o divertimento esercita violenza sui più deboli e sugli indifesi. Per lo meno questo è ciò si è letto in questi giorni nelle cronache che hanno definito atti di bullismo i pestaggi sul povero pensionato di Manduria, trovato in un grave stato clinico dopo mesi di pestaggi.
A parte il fatto che non è corretto parlare di bullismo quando un adolescente esercita violenza su un adulto, ma occorre definirle azioni di abuso dettate dall’incapacità di tenere sotto controllo pulsioni e istinti, vi sono in questa storia incredibile diversi elementi che sconvolgono. Primo fra tutto il fatto che i comportamenti dei ragazzi, che peraltro si sono videoripresi e hanno postato quel materiale su whatsapp, erano conosciuti da tempo. Molti sapevano ma nessuno ha parlato e ha impedito che questa storia andasse avanti. Altri, come alcuni genitori, hanno dichiarato di non aver potuto immaginare i comportamenti dei propri figli, tanto meno sapere come si sviluppa il loro mondo di relazioni.
Questa storia, come tante altre, è sconvolgente perché sottolinea la lontananza abissale che oggi divide gli adulti dai nuovi bambini e dai millennials. Segna gravemente la distanza culturale della famiglia che non sa cosa provano dentro gli adolescenti e come comunicano con quei dispositivi digitali che gli adulti regalano fin dall’età di 7/8 anni. E poi fa emergere l’incapacità che abbiamo un po’ tutti di accorgerci della violenza e di quanto la stiamo normalizzando nelle azioni quotidiane, così che non ci appare più come offensiva e mortifera.
Questo fa sì che siamo tutti responsabili di quello che è accaduto a Manduria, colpevoli di non saper vedere che la violenza dei ragazzi può anche narrare un disturbo come quello di una perversione che si chiama sadismo, ovvero il piacere di fare del male ad un altro e torturare.
Per questo motivo è furoviante affermare che il bullismo o il cyberbullismo, e tutti quei comportamenti violenti persistenti e persecutori abbiano come spiegazione la noia o il vuoto di valori. Credo invece necessario riconoscere precocemente anche i quadri clinici specifici che producono comportamenti disturbati e ricordare che pure l’incapacità di provare empatia può diventare una patologia significativa, quella che sviluppa analfabetismo emotivo, freddezza e indifferenza.
Chiamare in causa la patologia dei comportamenti non significa attenuare la responsabilità di chi compie azioni crudeli e gravemente persecutorie, ma ci richiede di pensare all’incapacità dell’attuale comunità educante di controllare lo sviluppo psicofisico dei minori e la loro salute mentale. Ci impone di considerare grave la complicità silente della società di oggi, che tollera o, addirittura alimenta, la cultura della violenza e non sa mettere in campo strumenti educativi, azioni di controllo e di prevenzione utili a contrastare le devastanti condotte aggressive che le nuove tecnologie della comunicazione non alimentano, ma amplificano.
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