Armare, riarmare, disarmare
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I verbi in genere indicano azioni o intenzioni, stati, modi di essere o progetti. Quelli che hanno a che fare con la parola “armi”, narrano storie, fatti di guerre avvenute o da avviare, da scongiurare e da temere.

Ricordano le paure o il terrore della violenza che riarma e promuove la deterrenza come via salvifica.

È nota, a questo proposito, la locuzione latina che dice “Se vuoi la pace, prepara la guerra” quasi a legittimare il principio della dissuasione che però non si fonda sul confronto dialettico o sulla negoziazione, ma sull’equilibrio degli armamenti e sulla paura che l’esplosione di una guerra sia definitiva per tutti.

In altre parole alla base del riarmo, c’è la paura come strategia, il terrore come arma per insistere sull’importanza relativa alla parità di armi offensive che garantisce il patto di non aggressione e “assicura” la pace.

La domanda che sorge immediata è quanto la paura continua e gli alti livelli di timore che pervadono le nostre esistenze quotidiane, diventino uno stile di vita e uno stato collettivo di ansia in grado di risvegliare e attivare i conflitti. Perché, per un certo verso si finisce per fare la guerra per paura della guerra.

L’interrogativo più insistente allora continua ad essere lo stesso che nel 1932 Albert Einstein pose a Sigmund Freud lo studioso della psiche umana, quando gli chiese se “C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?”. Il padre della psicoanalisi, lapidario, risponde allora che è “impossibile sopprimere le inclinazioni aggressive degli uomini”.

Questo gli fa sostenere che è ineliminabile la guerra così come a noi oggi sembra impossibile non riarmare un popolo perché possa difendersi, nonostante a gran voce si urli da ogni parte: “Mai più guerra!”. Soprattutto quando gli orrori delle guerre sono sotto gli occhi di tutti e sempre più minacciano gli individui di devastazione e morte.

Sono le pulsioni aggressive, dice Freud, come il “potere, la padronanza, l’appropriazione” che contengono anche “il piacere di odiare e distruggere” e che insieme alla crudeltà alimentano la pulsione di morte, capace di opporsi alla pulsione di vita. Sono i “forti fattori psicologici che paralizzano gli sforzi” e la possibilità di regolare i conflitti sociali senza l‘uso delle armi.

Potrà sorprendere ma la “febbre della guerra” si impossessa di tutti e alimenta quella forza istintuale che spesso diventa psicosi collettiva, esalta i comportamenti aggressivi letti come atti eroici quando, in altri momenti, sarebbero inaccettabili.

Mentre il sentimento di odio deumanizza il nemico e giustifica la violenza, la paura e l’angoscia per il futuro autorizzano e potenziano l’idea del riarmo. Ma quello che secondo Freud è possibile fare per contrastare e mitigare la naturale distruttività e forse, diciamo noi, disarmare, è prima di tutto la capacità di costruire la pace all’interno della mente umana.

In secondo luogo e secondo il pensiero Lugi Pagliarani, psicosocioanalista, la sfida alla distruttività umana può essere data da un diffuso progetto di “educazione sentimentale” che serva a promuovere nelle persone buone competenze emotive e le aiuti ad elaborare in modo creativo le conflittualità insite nella vita relazionale

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