Beata anzianità!
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Viviamo in tempi in cui la vecchiaia viene esorcizzata in tutti i modi possibili: negata, rimandata, cancellata, ritoccata. Non ci sentiamo vecchi, né pronti ad invecchiare e di conseguenza cerchiamo di spostare sempre più avanti l’età anziana, anche giocando con le parole: giovani anziani, anziani, grandi vecchi, centenari, sono le nuove categorie con cui proviamo ad avvicinarci in maniera meno traumatica ad un mondo che ancora ci spaventa.

In realtà però, il problema non è divenire parte di quel mondo, bensì il modo in cui quel mondo viene rappresentato e vissuto. Per decenni è stata coltivata e trasmessa alle nuove generazioni un’idea statica di invecchiamento, come se si trattasse di una brutta malattia che ci colpisce universalmente allo scoccare dei 65 anni (soglia ufficiale fra la fine dell’età adulta e l’inizio dell’età anziana), portando con sé soltanto declino, perdita e morte. E nel tempo questa idea, al pari di un piccolo parassita, si è nutrita delle energie vitali delle persone, crescendo, rafforzandosi, diffondendosi, concretizzandosi, fino a convincere i più della sua stessa veridicità.

I giovani spesso considerano tuttora gli anziani come dei rimbambiti; gli adulti, non appena hanno l’impressione di avere dei piccoli vuoti di memoria, iniziano a commentare che stanno diventando vecchi; gli anziani stessi hanno una percezione delle loro risorse inferiore rispetto al dato reale, soprattutto quando si parla di capacità di memoria e apprendimento. Si tratta di stereotipi che, minando la considerazione collettiva, sociale, di un’intera fascia di popolazione, fanno sì che coloro che col passare del tempo si affacciano ad essa, si sentano in dovere di mettersi in discussione, di rivedersi, di indossare i panni dell’anziano, rispondendo a delle aspettative condivise basate esclusivamente su un dato anagrafico.

Un semplice, irrilevante, dato anagrafico: un numero che di fatto nulla ci dice sulla reale situazione mentale, cognitiva, fisica, energetica, della persona. Come non ci dice nulla sul suo stato di benessere, sulla sua forza vitale, sui desideri che ancora coltiva, sulla voglia che ancora ha di fare esperienza, di mettersi in gioco, di sentirsi parte attiva della società e protagonista della sua esistenza.

Può accadere così che un uomo o una donna, superati i 65-70 anni, specie se arrivati all’età della pensione e dunque privati del loro impegno lavorativo, si “sentano” improvvisamente vecchi, nonostante nulla o poco sia cambiato nella loro condizione fisica. E di conseguenza inizino a comportarsi da vecchi, arrendendosi allo scorrere del tempo, ad una vita passiva, ai malanni che a quel punto iniziano a manifestarsi come risultato di questa resa mentale, prima che fisica.

Combattere gli stereotipi e modificare la visione collettiva dell’anziano è divenuta perciò una delle grandi sfide della psicologia dell’invecchiamento, nata con lo scopo di descrivere in maniera più oggettiva i cambiamenti che avvengono col passare dell’età a livello fisico, cognitivo, emotivo e relazionale. E proprio dagli studi che sono stati realizzati è emerso un quadro dell’anziano ben diverso da quello del nostro comune immaginario, che ne sottolinea invece le potenzialità, le risorse di cui ancora dispone, la sua capacità di essere sempre e comunque “protagonista della vita sociale” (Walker, 2011).

L’anziano già ora, di fatto, gioca un ruolo importantissimo, ponendosi come punto di riferimento e figura ausiliaria in moltissime famiglie. Un aiuto che si traduce a volte in sostegno economico: nel 2018 in Italia ammontavano a 1 milione 488 mila le famiglie rette anche dalle pensioni o dai redditi degli anziani, e a 869 mila quelle rette esclusivamente da ultra-sessantaquattrenni soprattutto pensionati. Un aiuto che molto più spesso si concretizza nel prendersi cura dei nipoti: svolgendo attività di babysitting, portandoli e andandoli a prendere a scuola, accompagnandoli ai corsi pomeridiani, e via dicendo.

Dove non arrivano i genitori, spesso arrivano i nonni. Nonni che guidano l’auto, viaggiano, fanno esperienze nuove, coltivano hobby e passioni, usano il cellulare e familiarizzano con le nuove tecnologie, escono in compagnia e hanno voglia di trascorrere del tempo di qualità.

Gli anziani di oggi dunque, non sono più gli anziani di un tempo, o non devono necessariamente diventarlo. Così come l’invecchiamento, oggi, non è più da considerarsi condizione statica, ma processo il cui andamento è in larga parte nelle nostre mani. Lo costruiamo noi, giorno dopo giorno, in base alla vita che conduciamo.

Lo stile di vita acquisisce così una rilevanza fondamentale nel determinare la qualità del nostro invecchiare: mangiare sano, fare attività fisica, mantenere la mente attiva, non fumare, condurre una vita soddisfacente, ricca di relazioni positive sono i presupposti per arrivare all’età anziana con un bagaglio di risorse che possono meglio proteggerci dal naturale declino delle funzioni sensoriali, così come da fenomeni di deterioramento cognitivo. Ecco perché ogni persona invecchia in modo diverso, e in ogni persona i singoli aspetti del funzionamento fisico e mentale possono avere degli andamenti di sviluppo differenti. Alcuni saranno infatti destinati ad andare incontro a delle perdite più di altri, che invece sopravviveranno meglio al passare del tempo, a seconda di quanto sono stati preservati, coltivati e potenziati nel corso della vita.

Un invecchiamento dunque che è innanzitutto cambiamento, in cui perdite e guadagni si combinano in maniera complessa così come accade in ogni fase della vita, e il cui esito varia senza dubbio da individuo a individuo, ma anche nelle diverse dimensioni del funzionamento di una stessa persona. Ma se come detto finora, siamo noi gli artefici principali della nostra vecchiaia, ne consegue che possiamo impegnarci per invecchiare bene, con successo.

L’espressione “successfull aging” nasce proprio per indicare un invecchiamento attivo, perseguibile mediante “l’ottimizzazione delle opportunità per la salute, la partecipazione della persona alla vita sociale, e la sicurezza (anche di un reddito che consenta di vivere dignitosamente), al fine di migliorare la qualità della vita man mano che le persone invecchiano” (World health organization, 2002).

Una prospettiva nuova, che sta cercando di farsi strada in una società in cui gli anziani sono sempre più numerosi, longevi, e bisognosi di sentirsi ancora utili, di conservare il più a lungo possibile una loro autonomia, di vivere finché possibile una vita ricca e piena. Per questo motivo, la persona anziana non deve essere considerata soltanto come un soggetto debole e bisognoso di cure, ma le si devono dare le condizioni affinché possa costituire ancora una risorsa per se stessa e per la società. Questo significa prevedere attività di promozione dell’invecchiamento attivo, che non possono essere delegate soltanto alla libera iniziativa dei singoli o di gruppi più o meno organizzati, ma che devono essere sostenute anche attraverso politiche che riconoscano ad ognuno il diritto e la responsabilità di avere un ruolo attivo e partecipare alla vita della comunità in ogni fase della vita.

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