L’empatia sembra oggi una parola di moda visto l’uso frequente che se ne fa. Ma, a mio parere, è piuttosto una necessità a cui dovremmo dedicare particolare attenzione e risorse. Soprattutto impegno educativo. Perché in un tempo in cui pregiudizio e intolleranza aumentano e dove le manifestazioni di odio e le espressioni di razzismo emergono un po’ ovunque, “costruire empatia” vuol dire provvedere allo sviluppo di strumenti che consentono di sintonizzarci sugli altri.
Empatia significa proprio questo: percepire quello che prova l’altro, saper mettersi nei suoi panni o, come dicono gli anglosassoni, nelle sue scarpe.
Questo sentire non è una competenza specifica di alcuni o una qualità dei cosiddetti “buoni”, quelli che sanno solidarizzare con gli altri. È, viceversa, dotazione comune di ogni individuo. Lo hanno confermato le neuroscienze con la grande scoperta dei neuroni specchio,che rappresentano la struttura biologica dell’empatia. Tuttavia la capacità di empatizzare va attivata e stimolata possibilmente in tempi precoci perché le mappe emotive si sviluppano nelle prime fasi della vita a partire da quel fondamentale rapporto madre-bambino che è fatto di “sintonia” affettiva. Quando invece vi è distanza, e non solo fisica ma soprattutto di attenzione, oppure dove lo sguardo della madre è “altrove” il bambino, privato di questo contatto, non è in grado di sviluppare sicurezza e fiducia né tanto meno di attivare quelle capacità di “ascolto” che gli permette di percepire l’altro e i suoi sentimenti.
Porre le basi dell’empatia vuol dire educare alle emozioni e far sì che i bambini possano esprimerle liberamente ma anche chiamarle con il loro nome specifico che non sia solamente una delle tante faccine con cui oggi tendiamo a rappresentare ciò che sentiamo. L’analfabetismo emotivo in continua crescita, è incapacità di dare spazio a ciò che si prova ma allo stesso tempo anche indifferenza e distanza di partecipazione dal sentire dell’altro. Costruire un alfabeto emotivo da arricchire man mano che si cresce, vuol dire fare in modo che già da piccoli i bambini imparino a vedere il mondo non solo dalla propria prospettiva ma anche da quella degli altri. Per questo dovremmo chiedere a un bambino non solo cosa prova e come si sente, ma è anche suggerirgli di immaginare come può sentirsi il compagno o un’amica quando hanno una difficoltà, un problema o hanno ottenuto un successo. Allo stesso tempo serve chiedergli di pensare a quello che può produrre il suo comportamento sugli altri. È utile per esempio dire: “Guarda che hai fatto soffrire tua sorella!” oppure “Prova a pensare come ti saresti sentito se ti avessero offeso come tu hai fatto!”. Esercitazioni che dovrebbero far parte di un progetto educativo su emozioni e sentimenti da sviluppare a casa e a scuola. Ovunque.
Poi per costruire empatia, dovremmo evitare di giustificare qualsiasi forma di prevaricazione e offesa, sia fisica che psicologica. I piccoli bulli solitamente crescono diventando poi cyberstalkinge violenti laddove l’ambiente che li circonda tende a scusare e banalizzare le loro “bravate” e dove vi è carenza di attenzione per i diritti degli altri. Sanzionare con coerenza i comportamenti offensivi dei bambini è necessario ma è pure fondamentale chiedere loro di riparare, e non solo con un semplice “scusa”. Il passo successivo dovrà essere quello di aiutarli a riflettere sui danni prodotti e riconoscere le proprie responsabilità personali.
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