Fermiamoli! Non c’è tempo da perdere. Facciamoli crescere e diventare autonomi questi ragazzini se non vogliamo vederli morire a 10 anni per un assurdo gioco di imitazione come è accaduto a Palermo. Non possiamo continuare a pensarli bambini e infatilizzarli autorizzandoli a credere che è un “gioco” la prova estrema e assurda di una bambina che si stringe una cintura alla gola per vedere cosa si prova a stare in apnea.
“Blackout” lo chiamano questo divertimento mortifero, oppure “Passing out game”. Ma non è per nulla gioco, come credono. È una challenge, una sfida pericolosa, fatta per mettersi alla prova, per competere con gli altri e imitarli. Accade sui social, dove si diventa popolari e famosi mostrando abilità e comportamenti eccessivi. Così per soffocamento è deceduta la piccola. Molto probabilmente e perché non ha saputo fermarsi in tempo.
Centrano i social? Si ma non è esclusiva colpa loro. Gridare alla diffusa pericolosità della tecnologia digitale non serve, non salva nessuno. Di sicuro ci sono limiti da definire, accessi alla rete da controllare bene e funzioni tecnologiche da contenere per limitare la risonanza e l’emulazione mediatica delle imprese spavalde postate sul web. Ma i programmi di tutela dei minori ci sono, si possono attivare per proteggerli visto che non sanno il confine tra la prova e la morte. Alcune società li usano rendendo profili privati quelli degli utenti tra i 13 e i 15 anni, come ha fatto TikTok in questi ultimi giorni, forse anche a seguito di questo caso.
Il problema è però il controllo degli adulti di riferimento che manca. Spesso i genitori acconsentono ai più piccoli di iscriversi ai social più di moda imbrogliando sulla data di nascita dei figli. Ignorano loro stessi quali sono i rischi che fanno correre ai figli, non sanno dei giochi e delle imprese sempre nuove in rete. Non sanno più di tutto che agli adolescenti manca l’autocontrollo.
Dicono di divertirsi e pensano di giocare quando invece mettono in atto sfide estreme. Non lo fanno per trasgredire ai divieti degli adulti, come accadeva un tempo, quanto piuttosto per mostrarsi ed essere visibili. Li attrae la gara con gli altri, il confronto con i pari, peraltro fondamentale a quell’età, ma domina la voglia di diventare popolari e famosi. E sentirsi invincibili con la sensazione (o l’illusione) di poter fare tutto senza limiti. Non è più il voler andare oltre le Colonne d’Ercole come si diceva una volta quando si cominciava ad esplorare il mondo, è il non sapersi fermare prima perché non c’è ancora un sistema frenante attivo.
Le neuroscienze lo confermano: alcune aree cerebrali deputate al controllo del proprio comportamento si sviluppano tardivamente. Se poi ci aggiungiamo che per varie ragioni non sono stati attrezzati a riconoscere le emozioni proprie e quelle degli altri, se non sono stati resi capaci di gestire i segnali che aiutano a comprendere ciò che accade fuori e dentro, possiamo dire che manca loro quel riverbero emotivo che permette di distinguere una carezza da un pugno, un complimento da un’offesa.
Alla difficoltà fisiologica di riconoscere i pericoli allora dovrebbero provvedere gli adulti di riferimento con norme e regole necessarie per compiere il viaggio della crescita. Ai genitori spetta il compito educativo di stabilire precisi confini o paletti utili a contenere gli eccessi adolescenziali. Ma più di tutto poi non mantenerli infanti, iperprotetti, e necessita farli diventare autonomi e capaci di un pensiero critico, strumento necessario per cogliere la pericolosità dei comportamenti a rischio sempre più diffusi sul web. Meno li responsabilizziamo e più saranno in balia delle tante suggestioni pervasive che affascinano.