Nel 2019 l’ISTAT stima in 2 milioni circa i giovani italiani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano. Un numero veramente impressionante, che però va letto con attenzione, perché ragazzi che non sono classificati come disoccupati o forze di lavoro potenziali sono la metà. Di fatto stiamo parlando di circa un milione di giovani che io chiamo “divanato”, cioè è in una situazione di sospensione sociale e personale e che passa la maggioranza del suo tempo sul divano.
Si può discutere sui numeri, possiamo leggerli con maggiore attenzione e vedere che magari non tutti questi sono del tutto inattivi, ma occupati in tanti piccoli “lavoretti”. Comunque sia ritengo che una società educante si debba interrogare di fronte a questo fenomeno. Per esperienza personale so che molti sono ragazzi, che non sono riusciti a concludere il ciclo di studi superiori, non hanno raggiunto il diploma o la qualifica professionale e quindi non facilmente assorbibili nell’attuale mercato del lavoro.
Sicuramente molti di questi hanno disagi psicologici importanti, senso di fallimento alle spalle, svalutazione sociale e chissà quali altri traumi alle spalle che li bloccano.
Non è naturale per l’età l’immobilità. L’adolescenza e la giovinezza si sono sempre connaturate come stagioni del fare, del progettare e soprattutto dell’essere proiettati nel futuro. Sicuramente molti sono sogni ad occhi aperti, e non progetti pianificati, però questa dimensione romantica è tipica dell’adolescenza.
Come può essere che così tanti giovani siamo bloccati sul divano, ad attendere che accada chissà cosa che li trascini fuori dalla zona grigia?
Tante possono le letture rispetto alle cause, ma io voglio concentrami sull’indicare alcune linee pedagogiche di azione sociale utili a fronteggiare il problema.
Sicuramente se ci sono traumi, disagi o patologie psicologiche i ragazzi vanno aiutati con opportune terapie e percorsi. Questo però non potrebbe bastare, perché un ragazzo di 20 o 22 anni che è rimasto fuori da un circuito formativo, scolastico e sociale non ha sviluppato opportune competenze per affrontare non tanto e non solo il mondo del lavoro, ma il mondo stesso.
Spesso, purtroppo, ci si concentra sulle competenze professionali, pensando che una volta acquisite la persona sia in grado di inserirsi produttivamente in un ambito di lavoro. Questo è vero a patto che altre competenze sia già sviluppate. Competenze che oggi nella letteratura scientifica vengono considerate, a mio avviso “soft” leggere, ma che invece rappresentano le fondamenta su cui poi costruire il professionista e l’uomo.
Parlo di quelle che già l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha definito life skills cioè competenze di vita. Queste sono:
- consapevolezza di sé
- gestione emozioni
- empatia
- gestione dello stress
- pensiero critico
- pensiero creativo
- comunicazione efficace
- prendere decisioni
- relazioni efficaci
- risolvere problemi
Appare evidente che queste competenze sono trasversali a qualsiasi ruolo lavorativo, ma anche personale/umano e quindi le considero come fondamenta della persona.
Ad oggi non esiste un percorso definito, strutturato e offerto alla maggioranza dei ragazzi/e in grado di sostenere lo sviluppo di queste competenze e questo è quello che raccogliamo come società: un milione di “divanati”. Esse si sviluppano in contesti informali e solo alcuni hanno le risorse per metterle a frutto.
La comunità educante è chiamata ad affrontare questa sfida con gli opportuni strumenti, che comunque già esistono. Esistono sperimentazioni e percorsi validati in grado di sviluppare queste competenze. Certo siamo ancora in fase iniziale, ma non partiamo da zero, non possiamo certo definirla una novità nel mondo pedagogico. Mi auguro che a breve si possano offrire a tutti i ragazzi/e questa opportunità di crescita e ricevere dati confortanti in calo, così da “sdivanare” queste persone e permettere loro una vita piena e soddisfacente