La violenza sulle donne. Una questione urgente
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La dinamica è sempre la stessa ma la ferocia aumenta ogni volta nei casi di femminicidio. In una settimana se ne sono registrati tre e dall’inizio di quest’anno sono 75 le donne uccise, benché vi sia chi sostiene che la mattanza delle donne non è in aumento e dice in calo le denunce per stalking.

Cresce la crudeltà dei maschi incapaci di gestire le relazioni e accettare i distacchi. Non importa l’età, ma gli uomini che uccidono sembrano farlo perché hanno perso il controllo della ragione o perché sopraffatti da raptus (inesistenti). Il solito refrain che insiste sulla imprevedibilità della “follia” maschile o tenta di giustificare l’impossibilità di proteggere le vittime designate.

In realtà sappiamo che il femminicidio viene preparato nel tempo e cresce negli immediati dintorni delle relazioni affettive, nei rapporti di coppia e nelle stanze familiari dove non ci sono tracce di amore, ma storie lunghe di abusi.

È accaduto a Celine di Silandro e ad Anna di Sorrento che avevano denunciato il loro assassino ma sono state ammazzate. Morti annunciate che ci fanno sussultare perché le istituzioni non sono intervenute. Ira legittima perché ti mostra la solitudine della vittima e purtroppo “rabbia tardiva” che esplode sui social ma svanisce in fretta, senza modificare nulla.

Allora ti domandi come mai adesso che la maggioranza delle donne prima di soccombere segnala cosa sta subendo, trova le istituzioni distanti e nessuno che protegga, nessuno che aiuti. Eppure molti sanno.

Il giorno dopo il massacro la rabbia è sempre una furia povera, inutile, ricolma di odio per l’assassino ma per lo più dettata dalla paura del “mostro” che circola libero e non ne consoci il volto. Poi come la notizia sparisce dalle home page, l’ira sfuma e l’indignazione sbiadisce.

A me inquieta invece questa “reazione a tempo” che assale dopo e non prima, che non chiede alla comunità progetti ma azioni repressive, utili ma non risolutive. Deve farci pensare che dietro spesso c’è l’indifferenza e un’abissale distanza emotiva: la “banalità del male” ci ha reso abituale la violenza a cui si è aggiunto quel comune educare “a farsi gli affari propri”.

Fin tanto che si faranno crescere i figli con questo mantra e non li renderemo capaci di riconoscere le proprie emozioni, in grado di ascoltare le altrui, se non insegneremo loro come gestire i conflitti, non avremo spazi di convivenza inclusiva, né ascolto della sofferenza e rispetto. Incontreremo maschi con più bisogni e senza desideri.

E noi continueremo a chiedere leggi per gli assassini senza fare nulla per salvare le vittime e prevenire il “male”. Metteremo etichette di “Scuola gentile” o “Paese gentile”, che resteranno appese da qualche parte ma senza significato. La comunità gentile è una realtà da costruire con urgenza. Non una targa.

Necessitiamo di una società capace di proteggere i più deboli e che sappia davvero educare alla gentilezza e al rispetto. Famiglie sostenute nei loro progetti educativi e scuole in grado di promuovere programmi di educazione al maschile per i giovani maschi.

Altrimenti la violenza dei gesti e delle parole continuerà a massacrare le donne e a renderle vittime di quegli uomini incapaci di abitare le relazioni affettive.

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