Nel tempo infuocato delle guerre che ci assediano, la parola “gentilezza” da qualche anno celebrata il 13 novembre, sembra un paradosso. Perché il termine indica sentimenti nobili, gesti di rispetto, azioni di qualità e solidarietà e non disprezzo, odio, vendetta e mattanza.
Gli ingredienti della gentilezza sono la comprensione, l’accoglienza e la cura che è occuparsi e pre-occuparsi dell’altro, non eliminarlo ma dargli lo spazio adeguato della relazione.
C’è da dire che la gentilezza non è una dotazione innata ma una competenza da raggiungere per gradi, come imparare a parlare. È una “lingua” che si apprende e che tutti possono capire senza parole, come diceva Mark Twain, ovvero una forma di comunicazione che genera dialogo, ma solo se si sa ascoltare.
Ascolto generativo e trasformativo con cui può starci lo scontro e la diversità ma non la violenza dell’odio che frantuma la comunicazione, il cui etimo è mettere in comune e tenere insieme.
Essere gentili è un ascoltare più che sentire, un osservare più che vedere, è provare comunione di intenti e gratitudine, binomio necessario per contenere egoismo e individualismo. La gentilezza non è dotazione o dono, ma progetto e obiettivo da raggiungere. Non è nemmeno uno slogan che si esaurisce con una targa appesa al muro di una scuola o di un edificio pubblico.
È un processo educativo da sostenere per potenziare la comunicazione e insegnare le soft skills necessarie allo stare insieme, che andrebbero proposte già ai piccoli del nido con la forza dell’esempio ma insegnate agli adulti e chi si prepara alla genitorialità e alla nascita.
Non si campa sul buonismo per crescere i figli capaci di gentilezza e i “Comuni gentili” come Enti pubblici, dovrebbero ricordare che c’è da attrezzare una comunità di adulti povera di ascolto, sempre più logorroica e che fatica a gestire i sentimenti e il movimento dei propri pensieri.
La fretta educativa di oggi è spesso mancante di partecipazione e confina con la trascuratezza, quella con cui abbiamo rimosso le parole del quotidiano, come “grazie, per favore, posso, scusami” e cancellato l’urbanità dello stare insieme come cittadini che si rispettano e si sostengono.
La comunità educante, quasi ovunque scomparsa, non semina né coltiva più la gentilezza e non è consapevole del fatto che umani e mammiferi superiori pur avendo fin dalla nascita strutture nervose complesse come i “neuroni specchio” precursori dell’empatia e della compassione, hanno bisogno di essere stimolate e potenziate fin dai primi anni di vita.
Per sviluppare gentilezza c’è necessità di modelli di riferimento, non di formule ma di laboratori dove attivare relazioni cortesi e processi di cambiamento che possano essere “contagiosi”. Dovremmo metterci ad insegnare il linguaggio civico e gentile delle parole e dei gesti cortesi con cui contenere il turpiloquio e ora l’Hate speech dilagante dei social, che è odio puro e fa proliferare sgarbi verbali e quotidiani, normalizza la prepotenza e la violenza e ci rende incapaci di riconoscere l’importanza del garbo delle parole e dei gesti.