La febbre
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La stanza era piena di una luce dorata. Chi mai l’avrebbe detta una stanza d’ospedale? Spoglia, con due letti laccati in vernice avorio, un vasetto con fiori di campo e due persone, un ragazzo e un anziano, uniti da una brutta influenza, a detta dei dottori, e forse da nient’altro, fatta eccezione per quella luce calda e avvolgente.

«Tu chi sei?» chiese l’uomo, che si era appena svegliato.

«Chi ero, vorrà dire…» rispose il giovane.

«Eri? Perché? – chiese il vecchio -. Sono un medico, e non ti vedo così male…».

«Lei… lei è un medico?» si stupì il giovane, sfuggendo alla domanda; poi, rivestendo le parole con un velo di gentile ironia – forsanche per na‐ scondere una profonda tristezza -, aggiunse:

«La cosa mi preoccupa».

«Ti preoccupa che io sia un medico? E perché mai?».

«Be’, se lei è qui, se anche lei è malato, anche lei ha perso, no? Ne era uscito indenne sinora – disse il giovane -, e poi, una stupida febbre, come dite voi…». Quindi, accompagnando il tono pieno d’enfasi a uno sfumato sorriso beffardo, ag‐giunse, declamando: «L’impotenza del medico verso il male…».

Abbassò lo sguardo, il ragazzo, come per ripa‐ rarsi dalla vergogna d’esprimere una minuta catti‐ veria, e alzando i sopraccigli, fu lui a porre una domanda.

«Preferirebbe la stupidità di non averlo evi‐ tato, il suo malanno?».

«Pochi l’hanno evitato, caro ragazzo. Comun‐ que, se devo scegliere, d’accordo, scelgo d’esser stato stupido…» rispose il medico, e lo disse col coraggio di chi si confessa, per poi ammettere che, sì, in quei termini, la stupidità lasciava quanto‐meno aperta la porta alla speranza.

«La speranza? – esclamò il giovane – Questa è bella. I capelli bianchi non le hanno insegnato niente, dottore?».

Il vecchio medico si meravigliò delle parolepronunciate dal ragazzo, e s’avvalse del tempo quando anch’esso si sorprende e si ferma, e non per dirti che la vita è monotona o pigra, ma av‐ vertendo, esso stesso, di non contar più nulla, e di potersi offrire per donare spazi e pause, per espri‐ mere desideri, per godere di un respiro, di una ri‐ flessione. E il dottore ne approfittò, dello stallo del tempo, fermò il pensiero e permise agli occhi di scrutare il volto del ragazzo. Gli regalò un nuovo sorriso e, lentamente, mosse il capo in su e in giù, a dirgli che lo capiva, che aveva ragione lui, che pure era tanto giovane e, ci s’immagina, inesperto.

«Come ho fatto a non pensarci – si domandò il dottore -, dovrei esser io il sapiente, il vecchio e saggio medico…».

Respirò a lungo, il dottore, per goder lui stesso del proprio sorriso, e pensò a quanto un volto lieto esprimesse più delle migliori e raffinate parole. Recuperò però il senso del discorso e volle tornare al dunque, il medico anziano, e lo fece stavolta da par suo, con quell’inconfondibile tono dottorale.

«Qual è il tuo acciacco?» chiese, per poi ag‐ giungere: «E perché… eri?».

«Sono morto sul Piave, signor dottore, e poi a Caporetto, e sul canale d’Otranto, e a Durazzo, e in mille altri luoghi ancora. Sono morto sotterrando i miei fratelli, innocenti eroi dell’arma bianca, li han chiamati – disse il giovane, scuotendo il capo -, sono morto vedendo mia madre lacerata dal do‐ lore e mio padre piangere disperato… ora, la feb‐ bre, dottore, suvvia, che paura vuole che mi faccia?».

«Ma tu chi sei?» chiese allora il dottore, sbi‐ gottito, e anche un po’ spaventato.

«Il mio nome è Bartolo, signore, sono un con‐ tadino della valle, guardi le mie mani».

Gliele mostrò, le mani ruvide e callose, con le dita già deformate dalla fatica, le nocche graffiate e rosse, la pelle secca e lacerata.

Il dottore abbassò la mascherina, come se, re‐ spirando aria fresca, il cervello ne traesse refrige‐ rio. Era turbato, e non comprendeva il senso delle parole del ragazzo, il cui volto non esprimeva in‐ quietudine per la febbre che lo tormentava da giorni.

«Non porti la maschera, Bartolo, perché mai? Sai che ti difende…».

«Come quella antigas, dottore, la maschera che doveva difendere i miei compagni al fronte?».

«I tuoi compagni al fronte? – si stupì il medico – Ma di che fronte parli? Ci basta star lontani l’uno dall’altro, lo sappiamo, la guerra la vinciamo così…».

«Quanto strane sono le sue parole, signore – disse Bartolo -. Se la lingua mi fosse amica, direi che, forse, bastava star vicini prima, per non com‐ batterla, la mia guerra…».

«La tua guerra?… vicini?… non capisco…» esclamò il dottore.

Detto questo, in preda a una strana confu‐ sione, il dottore sentì una voce che lo chiamava, che ripeteva con gentilezza il suo nome; la voce diveniva più forte, si faceva quasi ostinata.

«Dottor Gino, si svegli, c’è la colazione…».

Gino Fasoli, l’anziano dottore, si svegliò e si trovò di fronte due infermieri vestiti da sembrare astronauti; la televisione era accesa e fastidiosa come sempre, mentre l’apparecchio per la ventila‐ zione fortunatamente taceva, rimaneva spento ac‐ canto al letto, il letto di una stanza singola, abbellita da un vaso di fiori preziosi. Era la stanza del dottore che aveva vinto la battaglia contro un virus che aveva mietuto un bel po’ di vittime, quasi tutte anziane come lui.

La colazione, ricca di ogni ben di dio, se ne stava sul comodino, dove lui, il vecchio dottor Gino, aveva appoggiato la fotografia del padre.Si chiamava Bartolo, suo padre, e nel sogno gli aveva parlato.

 

Dedicato al dottor Gino Fasoli, medico volontario nella battaglia contro il coronavirus, e morto senza negare a se stesso ciò che per una vita intera aveva donato ai suoi pazienti: il sorriso.

Claudio Cuccia, dal libro Respiri, Editrice Morcelliana 2020 

 

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