L’appuntamento
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Le circostanze della vita mi hanno portato a simpatizzare con molti pediatri fin dalle mie esperienze infantili. Pur non essendo né  pediatra né medico ma uno psicologo dell’età evolutiva, sono stato amico e talvolta collaboratore di tanti pediatri.

Di quali pediatri sto parlando? Esiste un pediatra tipico? Per quanto siano riscontrabili tante caratteristiche tipiche dell’intera categoria, soprattutto legate al percorso formativo, donne e uomini pediatri portano nella professione la loro esperienza di vita, il loro carattere, il loro modo di esprimersi che li rendono individui unici. Come per ogni altra professione, sotto l’abito, sia esso un camice, una tonaca, una toga o una qualunque divisa, c’è l’essere umano che lo indossa ed è questo che davvero conta, nel bene e nel male.

Dicevo che la mia stima per i pediatri risale alle esperienze infantili, come spesso accade visto che l’origine di molte simpatie o antipatie “istintive” nei confronti dei nostri simili non sono frutto di istinto ma di lontane esperienze per lo più dimenticate.  

L’effetto placebo

Non dimentico invece ancora oggi l’effetto rassicurante per me bambino, un po’ gracile e molto sensibile alle variazioni del clima domestico, del semplice ingresso in casa di un signore grassottello e attempato con una valigetta in pelle a fisarmonica. Mia madre, fino a quel momento ansiosa, tesa e preoccupata per un mio attacco d’asma e qualche linea di febbre, si trasformava di colpo in attenta padrona di casa borghese facendo accomodare il medico in salotto e offrendogli caffè e pasticcini. Dopo i convenevoli d’uso, ascoltate da mia madre le ragioni della richiesta di una visita, il pediatra si alzava dalla sedia, apriva la sua borsa, ne estraeva lo stetoscopio e si avvicinava al mio letto dicendo con voce tranquilla “Vediamo cosa possiamo fare per questo bel malatino…”. Non ero particolarmente bello ma mi fidavo del medico e per di più, mi sembrava di stare meglio già per la sua presenza e forse, a distanza di tanti anni, capisco anche il perché: vedevo mia mamma più rasserenata senza quegli eccessi di agitazione che tanto mi mettevano in allarme.

Effetto placebo? Anche, ma la considerazione di cui godeva il pediatra non era certo infondata. Si dava per scontato allora che fosse un professionista preparato, ma quello che davvero aveva un immediato effetto terapeutico era la sicurezza e il modo in cui svolgeva il suo lavoro. Sapeva bene che quello che per lui era “un appuntamento” in agenda, per la famiglia che avrebbe incontrato era “l’appuntamento”, l’evento più atteso.  Ecco la spiegazione del titolo che ho dato al mio intervento.

La compliance

Il pediatra entrava in una casa allarmata e il suo primo compito era quello di portare calma, tranquillizzare gli adulti e, di conseguenza, i bambini. 

Il bambino e l’ambiente in cui vive sono profondamente intrecciati. Per quanto buono sia il piano terapeutico proposto dal medico, ha maggiori possibilità di funzionare se l’ambiente familiare ha fiducia nel pediatra e il clima domestico è, nei limiti del possibile, se non totalmente sereno, almeno controllato nelle reazioni emotive. Non si ottiene quella che oggi chiamiamo compliance, la collaborazione del paziente al piano terapeutico, in un clima di tensione, paura e agitazione che implica, a pensarci bene, una sfiducia nel medico con pericolosi ricorsi al fai-da-te.

Come vado spesso dicendo pur non praticandola sempre, la gratitudine è uno dei sentimenti più ricchi e fertili di conseguenze che io abbia sperimentato. Quando sono venuto al mondo io, come tutti voi, non amavo né odiavo. Avevo dei bisogni e protestavo se quei bisogni non erano soddisfatti e mi rasserenavo se invece lo erano. La vicinanza costante e premurosa di adulti che si occupavano di me instaurava una reazione di gratitudine e riconoscenza prima che di amore. L’amore, in tutte le sue variazioni parte dalla gratitudine e dal ricevere gratuitamente, esperienze che ci dispongono a dare, a scambiare a nostra volta. È anche vero, purtroppo, il contrario: senza ricevere fin dall’inizio della vita, è davvero dura essere disposti a dare.

La gratitudine

Ed eccomi a distanza di tanti decenni a esprimere gratitudine al primo pediatra che ricordo e a raccomandare ai pediatri più o meno giovani di non dimenticare mai che la loro è una professione che li mette in contatto con i bambini e i ragazzi, i cui problemi di salute, reali o ingigantiti, possono allarmare genitori e parenti al punto da complicare l’intervento terapeutico. Di conseguenza, un buon pediatra è anche un buon psicologo e non importa se gli studi di psicologia abbiano fatto o meno parte del suo curriculum formativo.

Prenderò spunto, per capirci meglio, da quella che è la mia esperienza di terapeuta e mediatore familiare nel campo dei gravi conflitti tra genitori.

Parto, sulla scorta di quanto comunicatomi nel 2011 dal Prof. Giuseppe Masera e dalla sua équipe, dal dibattito in atto in pediatria che mi sembra possa riguardare anche tutti coloro che a vario titolo si occupano di bambini e adolescenti coinvolti nelle guerre familiari. Guerre che la lunga esperienza di chiusura forzata in casa dovuta all’epidemia di Covid-19 non ancora conclusa ha ancora più evidenziato. 

Secondo i pediatri più attenti e sensibili, la situazione di conflittualità e tensione in famiglia non è sempre percepita dai genitori come informazione importante da comunicare al pediatra. 

Alcuni dei sintomi che portano il bambino alla consultazione in ambulatorio e che spesso vengono considerati in prima battuta prevalentemente dal punto di vista somatico, vanno approfonditi in vista di un corretto approccio diagnostico e terapeutico.

L’angoscia di separazione

Questi sintomi possono esprimere una situazione di sofferenza e nascondere una richiesta di aiuto da parte del bambino che solo un ascolto attento e consapevole può accogliere e comprendere. Capita spesso che i figli, di qualunque età, coinvolti in dissidi esasperati tra i loro genitori, non sappiano a che santo votarsi per chiedere aiuto.

I piccoli, venendo al mondo, ‘concedono’ a noi e all’ambiente un’apertura di credito totale, si affidano totalmente e dunque si trovano in condizioni di massimo rischio.

Tra le paure, o meglio le angosce, che portiamo in dote alla nascita, la prima è l’angoscia della separazione. Nella storia della nostra specie i neonati, cresciuti in stretta prossimità dei genitori hanno avuto maggiori probabilità di sopravvivere alle minacce onnipresenti dei predatori esistenti nel contesto dell’evoluzione umana. La separazione dai genitori suscita angoscia nei bambini, il cui sistema nervoso è dotato di un dispositivo di allarme evolutosi durante l’età della pietra. Il sistema segnala automaticamente la separazione dall’adulto con funzioni genitoriali e il pericolo potenziale. 

L’attaccamento fa dunque parte della nostra eredità psicobiologica. I comportamenti di attaccamento hanno assicurato nel remoto passato la protezione contro le minacce ambientali alla sopravvivenza, accrescendo così la probabilità che l’individuo solidamente attaccato potesse vivere abbastanza a lungo da riprodursi. In questo modo, la predisposizione ad allevare i figli si è diffusa in tutto il pool genetico umano. 

La risposta di angoscia e di sofferenza a una separazione prematura non è caratteristica dei piccoli umani ma è evidente in tutti i primati che l’hanno selezionata come più favorevole alla sopravvivenza.

L’allarme

Questa risposta di allarme e di sofferenza per la mancanza delle provvidenze necessarie alla sopravvivenza è presente nei bambini dalla nascita. Non è culturale ma del tutto naturale e funzionale alla sopravvivenza della specie.

Come si manifesta l’allarme di fronte alle tensioni tra i genitori e, nei casi più estremi, alla violenza assistita, fisica o verbale, quando i piccoli non sono ancora in grado di esprimere a parole o con gesti dal significato inequivocabile la loro sofferenza? Come può segnalare al suo ambiente la propria angoscia un essere umano di pochi giorni o pochi mesi o pochi anni?

Attraverso il corpo. In vario modo, anche con l’asma, come nel mio caso. Quel primo pediatra che ancora oggi ricordo sapeva bene che le cause scatenanti dell’asma sono infezioni virali, acari, muffe, polline e fumo. Frequentando la mia casa, conoscendone gli abitanti, cercando di tranquillizzarli, dimostrava anche di sapere che un bambino inquieto e allarmato per i rapporti familiari tesi, ancora incapace o comunque timoroso di indicare le cause del proprio malessere non poteva che esprimersi attraverso il corpo, io con l’asma, altri con disturbi diversi. 

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