L’arte della pazienza
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Al tempo della caduta del muro di Berlino alcuni giovani si trovavano a svolgere un servizio di volontariato presso un orfanotrofio in località Popesti nella Moldavia rumena. Quando arrivarono nella antica villa sequestrata per lo scopo dal regime, trovarono una situazione drammatica. Era novembre e faceva freddo, sul cancello la scritta “irrecuperabili”, dentro un centinaio di bambini ammassati in stanze senza vetri alle finestre, un puzzo acre di urina e feci, sporcizia ovunque. Notarono in particolare un bambino immobile in un angolo di branda con gli occhi sbarrati. Avrà avuto 8 o 9 anni. Cominciarono con le pulizie e portarono il bimbo, Yanut, nella stanza giù in portineria dove si sistemarono in un paio di locali. In poche settimane i volontari con l’aiuto dei bimbi irrecuperabili misero in sesto la struttura. Intanto Yanut stava giù appartato, ma presto cominciò a muovere le braccia e a fare qualche verso. Stefania lo curava con grande attenzione ogni minuto libero, gli parlava con amore e lo incoraggiava ad ogni impercettibile progresso. Dopo un mese i primi “da” e al secondo mese muoveva i primi passi.

Mi feci subito una convinzione: Yanut non camminava perché aveva le gambe, quelle ce le aveva a posto anche prima. Aveva cominciato a camminare perché c’era qualcuno che si aspettava che camminasse.

Questo atteggiamento di attesa paziente credo che sia uno dei cardini di una buona educazione ed è quello che hanno naturalmente le mamme, che si commuovono al primo balbettio del figlio, che chiamano tutti i vicini e i parenti quando comincia a gattonare o muove i primi passi. E il figlio lo sa. La pazienza non è una qualità passiva, non sta immobile sulla soglia con le braccia conserte e con l’orologio in mano tollerando il trascorrere del tempo. Non c’è pazienza senza pathos, il patire è nel cuore della pazienza ed è proprio questa passione che genera quella aspettativa rispettosa dell’altro che accoglie con gioia le nascite quotidiane.

La pazienza in questo senso è un’arte che dovrebbe essere coltivata in tutte le stagioni della vita. Ma inspiegabilmente i genitori e gli adulti in genere pensano che sia propria solo del tempo dell’infanzia. Questo è uno degli errori più grandi che facciamo.

Infatti c’è una nascita forse ancor più importante di quella naturale: l’uomo e la donna si formano per quello che sono, con la loro coscienza individuale, nel periodo della adolescenza e proprio in un momento così delicato spesso non trovano nessuno che ha “pazienza” con loro. Al contrario si trovano un mondo ostile pronto a giudicare il passo falso, ad imporre schemi che vengono percepiti come oppressivi oppure al contrario a staccare la spina, a lasciar correre tutto, a dire e a teorizzare che si devono arrangiare.

Il compito educativo non si ferma a 10 anni ma a quel punto cambia, deve cambiare. E lì viene il difficile, le ricette sono tutte sbagliate e davanti alle parole e ai comportamenti imprevisti dell’ex bambino all’inizio ci si meraviglia ma poi, a lungo andare, ci si trova nudi, inadeguati, e impazienti si cercano in fretta scorciatoie.

I figli che crescono spiazzano sempre e chi si sente già preparato rischia di più. Infatti tutti noi negli anni settanta/ottanta abbiamo studiato l’adolescenza, ci credevamo preparati e ci attendevamo oggi il tempo della ribellione, della contrapposizione e addirittura della violenza e invece ci troviamo ragazzi e ragazze chiusi, dentro se stessi o nelle loro stanze, autolesionisti e nemici di se stessi. Ci sentivamo pronti a rispondere allo scontro e invece ci troviamo impotenti dinanzi al senso di vuoto e allo spettro della morte.

Proprio in questa situazione di spiazzamento deve tornare il pathos, la pazienza. Rimettiamoci umilmente sul cammino della pazienza, mettiamoci nuovamente in ascolto della fatica e della sofferenza nostra e dei nostri ragazzi e ragazze.

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