In occasione dell’ultimo incontro a Villanuova s/C (BS) di “Genitori in forma-zione”. a Matteo Lancini, collega psicologo e psicoterapeuta, docente universitario e presidente del Minotauro di Milano, impegnato da sempre nello studio delle relazioni Genitori figli, ho posto alcuni interrogativi.
Di adolescenza oggi si parla quasi sempre in termini problematici. Ma secondo te, Matteo, gli adolescenti che abbiamo attorno stanno così male?
Mi vien da dire che non tutti i ragazzi stanno male, ma quelli che oggi esprimono un disagio lo vivono in modo diverso in quanto ha meno a che fare con la trasgressione e molto di più con la delusione. Crescono nella famiglia che è “quella della madre virtuale”, come sono solito chiamarla io. Una madre che spinge i figli verso una forte socializzazione, sprona a fare tante attività e ad avere tanti amici così che loro non possano fare alcuna esperienza di solitudine. Inoltre questi adolescenti vivono all’interno di una società mass-medaitica, dove il successo, la popolarità, la competizione e l’individualismo hanno avuto il sopravvento.
Dicevi che il loro modo di manifestare il disagio è diverso..
Sì, abbiamo nuove modalità espressive e dunque i sintomi del disagio si manifestano con la necessità di un anestetico e di un antidolorifico. Così almeno sembra funzionare oggi l’assunzione delle sostanze. Poi vi è un aumento tra gli adolescenti di pratiche autolesive in particolare quella del tagliarsi o del ritiro. Alcuni ad esempio spariscono dalle scene in una sorta di suicidio sociale, come se il disagio legato alla delusione e alla vergogna portasse più ad attaccare più il “sé” che l’altro.
Vien da dire però, parafrasando un po’ Arthur Miller, che “sono tutti figli nostri”. Li abbiamo cresciuti in un certo modo e non possono far altro…
In effetti nel libro provo a spiegare proprio questo. Gli adolescenti di oggi hanno seguito il mandato genitoriale e le aspettative di madri e padri. A questi dico che ora è venuto il tempo di rinnovare i modelli educativi e adattarli alle caratteristiche dei nuovi adolescenti. Perché a me pare che in Italia la scuola e la famiglia abbiano svolto il ruolo di adultizzare l’infanzia e infantilizzare l’adolescenza, spacciando tutto questo per autorevolezza. Ne consegue che i ragazzi delusi e scontenti, o più ancora angosciati dalla complessità della società, si rivolgano ad “agenzie” che non hanno un mandato educativo, come gli amici che adesso un maggiore potere orientativo, agli influencer, agli youtuber, o a chi può offrire loro forme e sguardi di sostegno per la realizzazione di sé e del futuro.
Vuoi dire che da parte dei genitori è necessario riprendere in mano il timone?
Non si tratta di far ricorso semplicemente ai famosi “no che aiutano a crescere”, ai paletti che delimitano i confini. Questi, peraltro, non possono essere piantati a 14 anni. Perché un genitore così non è credibile né autorevole se prima ha costruito un sistema in cui chiedeva al figlio di essere sempre in contatto virtuale con lui, gli ha regalato il telefonino a 8 anni, gli ha mostrato quanto è bello essere ripresi fin dall’asilo alla recita di fine anno e gli ha detto che è importante essere espressivi e avere tanti amici. Non è credibile quando poi d’un colpo gli chiede di spegnere il cellulare, iniziare a sottomettersi, perdere ogni creatività e pensare a Internet solo come un pericolo che produce dipendenza.
Gli interventi educativi autorevoli sono altri?
Certo. Non è dicendo a un adolescente di spegnare il telefonino e limitare i videogiochi che li facciamo crescere, quando oggi anche il Papa apre un profilo twitter, le suore di clausura comprano on line e qualsiasi area di lavoro ha a che fare con Internet. In questo modo stiamo facendo finta di essere autorevoli, o meglio stiamo cercando di spostare le nostre angosce sull’adolescenza in modo che noi possiamo continuare a far quello che vogliamo e loro no!
Ma allora proviamo a dire in poche parole cos’è l’autorevolezza?
Declinandola in questa adolescenza, per me l’autorevolezza è smetterla di pensare che si possa controllare un soggetto che è cresciuto relazionale. Vuol dire invece offrirgli un ascolto e una relazione attenta e non troppo angosciata, dove il primo passaggio è quello di non chiedergli più “Come è andata oggi a scuola?” e cominciare a dire “Come va in Internet?” Perché è importante la vita virtuale. Ricordiamoci che sono state le nostre angosce a farci dire che il mondo reale è pericoloso e che ci hanno spinto a chiudere i giardinetti e a far restare in casa i figli i quali, nel frattempo, hanno sviluppato più esperienze virtuali.
Che fare però con i rischi della rete?
Famiglia e scuola non possono pensare unicamente di limitare quel mondo mentre, viceversa, dovrebbe essere fornita ai ragazzi un’adeguata educazione digitale e offerto loro il riferimento autorevole e competente dell’adulto. Non è pensabile che la famiglia di oggi non conosca la vita virtuale e gli interessi di un figlio adolescente e non sappia dove sia quando naviga in Internet. Una volta quando un ragazzo era fuori gli adulti sapevano sempre dov’era, se stava con la sua ragazza o in biblioteca o stava facendo una rapina. Oggi dobbiamo ricordarci che Internet non è un’esperienza a se stante in quanto tutte le ricerche e tutti gli studiosi che si occupano di questo ci dicono che non c’è più differenza tra vita reale e vita virtuale.
Però l’autorevolezza degli adulti non passa solo attraverso Internet.
No. L’altro aspetto è prendersi in carico il futuro dei giovani Ad esempio la scuola dovrebbe mettere in piedi più modelli cooptativi e meno di controllo. Dovrebbe esserci una scuola capace di ingaggiare e coinvolgere l’adolescente facendolo sentire protagonista nel processo formativo. Sappiamo che la gran parte dei lavori futuri è ancora da inventare ma nello stesso tempo abbiamo la certezza che l’industria dei videogiochi costituisce l’unico lavoro certo per le nuove generazioni. Non a caso in Inghilterra e in Francia, Stato e scuola investono una quantità di miliardi per preparare le future generazioni a una società dove tutti videogiocano.
Tu però parli anche di educazione al fallimento. Che intendi?
È un altro aspetto dell’autorevolezza. Interessa sia la famiglia che la scuola quello di educare al senso del fallimento. Che non vuol dire far fare unicamente l’esperienza della bocciatura. Educare al fallimento vuol dire costruire un vero sé attraverso degli inciampi che devono essere superati e consentire all’adolescente di sperimentare la fragilità e la fatica. Serve in ogni caso che il genitore sia testimone del problema del figlio e la sua funzione sia quella di aiutarlo a risolvere le difficoltà. Però come la famiglia dovrebbe capire che le punizioni non servono più a nulla, anche la scuola dovrebbe comprendere che la bocciatura non rafforza gli adolescenti fragili, caso mai li allontana.
Giuseppe Maiolo
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