Nato senza camicia. Il racconto della mia infanzia (4)
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di V. M.

Storia raccolta dal nostro collaboratore, il giornalista Maurizio Panizza

Quarta puntata

Uno struggente addio e l’inizio di una nuova avventura

Giunti a Trento lo sconforto fu totale. Era giunto il temuto momento del distacco: lì si separavano le nostre strade. Franco venne nuovamente preso in consegna dalle suore e riportato in collegio a Levico, mentre io venni affidato alle cure di un religioso a me sconosciuto.

Dopo gli strazianti saluti, venimmo separati e partimmo per i nostri destini. Entrambi, con le lacrime agli occhi, ci guardammo a lungo fino a scomparire alla vista: chissà se ci saremmo ancora rivisti.

Del viaggio e dell’inserimento nel nuovo istituto, il quale si trovava a Sant’Ilario di Rovereto (dove oggi è c’è l’Istituto “Marconi”), ho dei ricordi molto labili.

Allora l’Istituto – un tempo chiamato il “Ricovero dei derelitti” – raccoglieva giovani provenienti da situazioni familiari disastrate, fra le quali io figuravo ovviamente a pieno titolo. Diversamente da Levico, questo era gestito da preti, ad eccezione di alcune suore adibite esclusivamente alla mensa e alla logistica.

Devo dire che passare dalle suore ai preti non migliorò affatto la situazione, anzi posso affermare che peggiorò decisamente.

Venni proiettato in una realtà dove le prevaricazioni e le violenze erano prassi quotidiana, al punto tale che ben presto mi resi conto che o tempravo il mio carattere e assimilavo quanto prima le scaltrezze necessarie per togliermi dalle difficoltà quotidiane, oppure rischiavo di diventare una vittima predestinata a uso e consumo dei compagni e degli educatori.

I nuovi compagni di classe provenivano tutti da situazioni di povertà, disagio sociale, e situazioni famigliari compromesse, ammesso che le famiglie esistessero ancora. La maggior parte di loro era già indurita dalle esperienze vissute.

Eravamo dei bambini che si affacciavano all’adolescenza in un contesto dove vigevano regole interne molto dure. A differenza delle suore, dove alcune (molto poche, in verità) erano anche dotate di gesti di materna dolcezza, i preti, invece, erano molto severi, poco inclini alla dolcezza e alla comprensione. Alcuni di loro, poi,  scoprii ben presto che erano portati a deviazioni sessuali, forse faticosamente sopite, ma che in ambienti chiusi, complici il silenzio e l’omertà, in molti casi esplodevano in tutta la loro drammatica perversione.

Devo ammettere che fu un periodo molto difficile e complesso, dovetti imparare a gestire molte situazioni sgradevoli, le quali purtroppo gettarono solide basi nella formazione di un carattere chiuso al prossimo e permeato di oscuro pessimismo. Carattere che si è leggermente addolcito nel tempo grazie alla fortuna di aver incontrato e vissuto poi con persone gentili e generose.

Per non entrare nella schiera degli “sfigati” – quelli, cioè, vittime di lazzi e soprusi – dovevi essere in possesso di qualche dote o capacità particolare che ti ponesse in una posizione di prestigio, in modo da poter vivere alla pari con gli altri compagni.

Io  non possedevo doti particolari e fisicamente ero pure mingherlino, quindi poco propenso allo scontro fisico.

Quello, però, che mi permise di non entrare nel gruppo delle vittime predestinate consisteva in una sola peculiarità: la mia capacità di giocare al pallone e la conoscenza della tecnica di gioco, seppur limitata, in verità, ma notevole per i canoni del collegio.

Infatti il mio soprannome di allora, che era un altro, ben presto passò alla sigla “Ct”,  come quella di Commissario Tecnico della Nazionale di calcio. Per tutti ero il Ct, e per questa mia riconosciuta capacità ognuno mi voleva come compagno in squadra per giocare con loro.

Il gioco del calcio a quel tempo e in quei contesti chiusi, era la massima espressione di divertimento per passare il tempo libero nei periodi di ricreazione.

Di episodi brutti e dolorosi, seguiti da punizioni fisiche e psichiche ne fui vittima numerose volte, io come molti dei miei compagni. Quelle, purtroppo, rientravano nella normalità di un vissuto di quel tipo.

Fisicamente subii la rottura del setto nasale dovuta a un pugno preso in faccia in seguito a una delle tante risse avvenute fra compagni, oltre ad ecchimosi e lussazioni varie: infortuni di ordinaria amministrazione.

Ricordo un ceffone che presi da un prete, un ceffone dato con tale violenza che mi lasciò stordito per un paio di giorni. Un altro, che evitai al volo abbassandomi velocemente all’ultimo momento, provocò la frattura del polso del prete che mi stava picchiando, il quale andò a sbattere contro il muro.

Cosa di cui non vado affatto fiero – cruccio di un passato che vorrei cancellare – furono i piccoli furti fatti nelle edicole e nei negozi alimentari avvenuti nelle nostre uscite una volta a settimana, quando dal collegio si andava a Rovereto in libera uscita per un paio di ore pomeridiane.

Furti che consistevano per lo più in fumetti (era il periodo dei primi fumetti erotici, attrattiva allettante per noi ragazzi che ci incamminavamo verso la pubertà) oppure in dolciumi di vario genere.

Ma gli episodi che più mi lasciarono schifato e sgomento avvennero per mano di ignobili e viscidi religiosi, che forti della loro posizione di dominio non lesinavano toccatine e palpeggiamenti vari.

Essere rinchiusi dentro mura che mantenevano segreti scomodi da non lasciar trapelare all’esterno era una condanna inevitabile a cui non potevi sfuggire.

Si era vittime indifese del potere esercitato dai nostri educatori, potere molto grande in possesso di persone prive dei requisiti morali necessari a quella professione.

Ovviamente la maggior parte di loro erano corretti e coscienziosi, solo una piccola parte era deviata, ma tale parte contava sulla assoluta omertà di tutta la “categoria”, per cui costoro potevano agire indisturbati nei loro propositi di violenza sessuale e psichica. Violenze effettuate principalmente sui soggetti dal carattere fragile e con scarsa protezione dall’esterno.

Uno di questi preti con la scusa di mostrarmi i voti della pagella, mi condusse nell’aula consiglio deserta e lì giunti si gettò su di me, sudato, eccitato, ed ansante, cominciando un furioso e violento palpeggiamento delle mie parti intime, al quale riuscii a sfuggire solo con la forza della disperazione, graffiandolo sul viso e scappando via a gambe levate.

Vissi interi giorni nell’angoscia e nel terrore di dover subire nuovi tentativi di approccio da lui e dal resto dei deviati, approcci per fortuna mai più avvenuti.

Ovviamente lo evitai per resto della mia permanenza in istituto, cambiando immediatamente direzione al suo sopraggiungere, ma alla fine del mio percorso nell’istituto gli giurai che una volta uscito se avessi avuto la sfortuna di rivederlo, per lui sarebbero stati dolori.

Altri miei compagni subirono stessa sorte, con lui e con altri maniaci suoi pari. Alcuni ragazzi, spregiativamente chiamati “coccoli” o “lecchini” temo abbiano subito  peggior destino e non oso immaginare cosa abbiano dovuto fare per poter entrare nelle grazie e nei favori avuti da costoro.

Quelli erano anni dove tutto era permesso all’interno degli istituti, e i bambini e ragazzi che vivevano in quegli ambienti poteva contare solo sulla propria scaltrezza e su una buona dose di fortuna per evitare di rimanere vittima di soprusi.

Qualche decennio dopo iniziarono a scoppiare i primi scandali di abusi sessuali e quel bubbone interno agli istituti venne a conoscenza dell’opinione pubblica. Fu allora che molte di quelle giovani vittime parlarono, mentre molte altre non ebbero il coraggio di farlo e portarono addosso per sempre ciò che avevano visto e vissuto in quegli anni.

Ricordo che mentre frequentavo la seconda media giunse in Istituto un educatore proveniente da Milano, molto diverso da quelli che già conoscevamo. Tale persona riuscì a conquistare la fiducia e la simpatia di moltissimi di noi.

Il suo approccio educativo e formativo, nulla aveva, infatti, a che vedere con il resto degli altri religiosi al punto che oggi posso dire che quella brava persona era anni luce avanti per il metodo  usato coi ragazzi.

Ovviamente una stella luminosa stonava nella mediocrità, pertanto venne allontanato quanto prima, perché la sua influenza positiva su noi ragazzi era vista con livore dalla meschinità di chi  gestiva l’Istituto.

Fra tanti fatti accaduti, uno degli episodi che mi rimase impresso fu la morte di un Padre di cui non ricordo il nome, ma ricordo invece molto bene la sua bravura nel costruire i presepi natalizi.

Tali presepi erano fatti in maniera veramente sublime, delle vere opere d’arte che richiamavano pure molti visitatori giunti dall’esterno.

Il giorno del suo funerale venimmo tutti portati nella cappella dell’Istituto e lì, dopo averci fatto inginocchiare cominciò la recita di molte litanie funerarie che si protrasse a lungo, per giungere infine all’estremo saluto, che consisteva nell’avvicinamento alla bara aperta, dove ognuno di noi avrebbe dovuto recitare una preghiera, per inchinarsi poi sulla stessa per dare un bacio al defunto.

Tutto ciò mi lascio turbato e spaventato, creando in me una profonda avversione per le cerimonie funebri, avversione non del tutto scomparsa, nonostante siano passati molti anni da allora.

I professori, fortunatamente, appartenevano al mondo laico ed essi venivano in Istituto unicamente nelle ore di insegnamento. Ricordo con riconoscenza alcuni di loro perché furono persone gentili, consapevoli di dover lavorare in una realtà complessa, dimostrandosi pazienti, comprensivi e dotati di profonda umanità.

Una professoressa giovane e assai carina, causò diverso trambusto emotivo su molti di noi, giovani “tumultuosi” che si affacciavano alla pubertà in un contesto molto restrittivo, dovuto alla ferrea disciplina morale imposta dagli educatori infarciti di dogmi teologici fino al midollo.

Ovviamente, manco a dirlo, anche lei durò poco tempo: essere giovane, carina e soprattutto in grado di turbare le rigide regole religiose non deponeva certamente a suo favore. Infatti senza nemmeno aver il tempo di salutare, un giorno improvvisamente scomparve e non la rivedemmo più.

Naturalmente non tutte le situazioni vennero vissute in malo modo, ci furono anche momenti gioiosi. Il gioco del calcio era lo sfogo naturale dei molti disagi vissuti e le ore dedicate al pallone erano quelle che si vivevano con intensità totale, quasi spasmodica.

A quei tempi, la squadra del Rovereto militava nel girone A dell’allora serie C, assieme al calcio Trento e ad altre nobili e blasonate formazioni che prima che in seguito avrebbero calcato anche i campi della seria A.

Alcuni dirigenti del Rovereto vennero in collegio spinti dal proposito di integrarci, per quanto possibile, con i ragazzi “esterni”, proponendo la possibilità di un incontro amichevole fra una selezione dei migliori giocatori del collegio e la loro squadra giovanile.

Quando tale proposta venne accettata e venne confermata dal “capoccia” dell’Istituto,  naturalmente in collegio si scatenò una frenesia totale.

Mettere insieme una ventina di giocatori tra titolari e riserve fu un’impresa enorme, non certo per mancanza numerica, quanto per il fatto che tutti volevano far parte di tale rappresentativa.

La formazione la fecero i nostri superiori e quella fu una scelta ponderata con sagacia. L’Istituto, infatti, voleva ovviamente ben figurare, pertanto vennero scelti i migliori di noi, all’interno dei quali essendo io, essendo il Ct, non potevo certamente mancare.

Furono svolti due o tre allenamenti assieme alla giovanile del Rovereto prima di disputare l’amichevole. I dirigenti del Rovereto ci fornirono poi una divisa dismessa in quanto noi ne avevamo, ovviamente. Possedevamo solo scarpe da calcio scalcinate e per alcuni anche bucate, oltre a pantaloncini e calzettoni di ogni forma e colore che tutto erano tranne che una divisa presentabile.

Venne infine il fatidico giorno, atteso con ansia indicibile da tutti noi.  Ricordo come fosse oggi come dal mattino fino ad incontro concluso non fui in grado di ingerire nulla di solido, solo qualche goccio d’acqua riuscì a restarmi nello stomaco da tanta era l’emozione per quell’incontro.

Forse gli avversari ci avevano sottovalutati, oppure noi giocammo con un’intensità incredibile, fatto sta che vincemmo con largo margine, ricevendo i complimenti di tutti. Quel risultato insperato ci portò inoltre un’altra grande sorpresa: una dozzina di noi, a rotazione, vennero scelti come raccattapalle nelle partite casalinghe del Rovereto. Mai regalo fu tanto gradito.

All’ultima partita casalinga della stagione, un attaccante della prima squadra, sicuramente mosso dalla disastrosa situazione in cui versavano le mie scarpe da calcio, con grande gesto magnanimo mi donò le sue. Erano, però, più grandi del mio numero, così, mi ingegnai a imbottirle di cotone pressato in punta. Alla fine dell’operazione le scarpette mi calzavano alla perfezione!

Mi misi quasi a piangere dalla contentezza: avere la famosa “pantofola d’oro”, per di più usata da un calciatore professionista, mi elevò ad altezze siderali, portando l’invidia dei compagni nei miei confronti a proporzioni bibliche.

I primi giorni le portavo sempre con me e la notte le mettevo sotto il cuscino, per la paura che mi venissero rubate, cosa peraltro assolutamente plausibile in Istituto. I piccoli furti tra compagni all’interno del collegio erano, non dico la norma, ma neppure improbabili.

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