“I figli invecchiano. Ma non invecchiano loro. Invecchiano te”. Inizia così il denso monologo di Mattia Torre, drammaturgo e regista da poco scomparso e di cui, tra qualche giorno, uscirà postumo, il suo ultimo film. “I figli – continuava- ti tirano fuori la tua rabbia perché devi saper dire NO anche quando non ne hai voglia, o quando quel giorno non hai la struttura emotiva per farlo”.
È così. È la relazione coi figli, inebriante e turbolenta, bella e difficile, pesante e leggera, faticosa ma anche ricca di gioie e di soddisfazioni. È uno dei rapporti più intensi e complicati della vita. Tra padri e figli, poi, il rapporto è ancora più delicato e complesso. In modo particolare oggi che della figura paterna c’è un gran bisogno.
Il padre, almeno all’inizio della vita di un figlio, è più metafora che corpo fisico, più rappresentazione mentale che cibo necessario alla sopravvivenza. La biologia dà alla madre il compito di costruire e far crescere. È lei una necessità, una presenza totalizzante che contiene e riempie. La sua cura che ne garantisce la vita.
Il padre invece arriva dopo ed è un dono. Offre al figlio un nuovo orizzonte da raggiungere e in particolare uno sguardo o una prospettiva diversa che va oltre il “seno buono” della mamma che allatta e soddisfa. Ma la sua presenza serve anche alla madre in quanto le dà l’energia necessaria per separarsi dal figlio, la sostiene perché lo lasci camminare con le sue gambe.
E allora se il padre entra in scena nei primi mesi, aiuta il proprio figlio a evitare la trappola della simbiosi. Diventa per lui forza decisiva che sostiene e dà valore alle parole, nel momento in cui egli sviluppa il linguaggio e prende forma la comunicazione verbale, più intenzionale e significativa.
Fino a quel momento per farsi capire al bambino bastava un gorgoglio impreciso o un verso, il pianto, un movimento del corpo o una sola parola informe e storpiata per dire qualcosa al mondo. Poi invece, c’è bisogno di parole e frasi che abbiano un senso. E c’è la necessità del padre che apra al significato delle cose. “La madre è la voce e il padre il linguaggio”, diceva Alfred Tomatis, con una felice allusione alla complementarietà di impulso e razionalità, di gesto e verbo.
Ma la fatica paterna aumenta non diminuisce con la crescita. Aumenta in adolescenza, perché a suo carico c’è la funzione regolativa che controbilancia le pulsioni e media tra gli opposti. È il ruolo normativo, quello del “no” o del “No, ma…” che dà confine alla realtà, apre a nuove dimensioni relazionali e mette in campo l’altro o gli altri, ovvero la società. Nel quotidiano c’è il suo essere tempo intermittente, ovvero presenza fisicamente discontinua che va e che viene, contrariamente al tempo della madre che è certo e assoluto. Ed è il tempo del pensiero e della riflessione. È con questi aspetti che può aiutare il figlio a coltivare il dubbio e accettare l’incertezza della vita. Gli mette a disposizione la sua forza che è pazienza e capacità di attendere, necessaria per far passare dalla dimensione del bisogno a quella del desiderio, dal tutto e subito al dopo e al futuro. Questa è la funzione paterna, quella che dà le coordinate per la rotta, indica lo spazio da esplorare e sa attendere l’arrivo, ovunque esso avvenga. Una relazione, dunque, necessaria per crescere e diventare uomini e adulti. Quella che, vien da dire, manca.
Giuseppe Maiolo