La domanda più frequente che è stata posta a tutti coloro che operano nel campo sanitario è stata la seguente: come siamo cambiati e come ci cambierà in futuro la pandemia? Come se si trattasse di una inondazione e venisse chiesto cosa resterà quando l’acqua si sarà ritirata.
Le risposte che abbiamo ascoltato variavano da un immotivato ottimismo, saremo tutti migliori adesso che abbiamo riscoperto valori come la solidarietà, la famiglia, gli affetti più autentici etc etc, a risposte improntate al più cupo pessimismo quasi la pandemia fosse il frutto della “cattiveria” e dell’egoismo, inguaribile dell’essere umano.
Ne l’una ne l’altra risposta mi convincono appieno, entrambi mi appaiono eccessivamente deterministiche l’una sottovalutando la capacità dell’uomo di elaborare le esperienze e di apprendere da esse e l’altra sottovalutando le resistenze proprio dell’uomo a cambiare, anche in presenza di eventi catastrofici.
Personalmente ho trovato più significativa di cosa è accaduto, la dimensione temporale, sia nella dimensione individuale che sociale, intrapsichica o relazionale. Non a caso abbiamo assistito ad una focalizzazione dell’attenzione sul cibo, sul come prepararlo, non sul timore di restare sprovvisti quanto sul recuperare una dimensione, forse l’unica praticabile, del prendersi cura di noi e di chi amiamo. Questa dimensione di sospensione del tempo, sia quello esterno che quello interno, questo perenne “hic et nunc” così fondamentale nella nostra pratica quotidiana è risultata particolarmente evidente quando il tempo esterno ha ripreso a scorrere, le strade hanno ripreso a riempirsi e le persone ad incontrarsi nuovamente scoprendo, tra lo stupore e l’incredulo, che è già estate.
Sì perché quello che di sicuro ci ha portato via il covid è stato un tempo della nostra vita, sono stati mesi che sono rimasti bloccati nel nulla. Nel lavoro con i pazienti, sia quelli via skype che quelli che venivano comunque in studio, questo è risultato particolarmente chiaro proprio nello stupore di scoprire che è già estate.
E quando ho l’occasione di vedere i ragazzi per le strade o nelle piazze, ho l’impressione di assistere al tentativo di rimettere le lancette dell’orologio interno e di quello esterno, nuovamente in sintonia, di riempire quel vuoto di tempo e di senso, che è il vero lascito della pandemia.