Sardegna. La struggente bellezza e il “fare” antico della gente
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Prima di scrivere qualunque cosa sullo splendore e poesia che ho appreso di quest’Isola, trattengo lo sguardo della memoria sulla desolazione della cenere oscura sulle colline. Gli incendi immani nell’Oristanese che ho attraversato in auto, e altre zone di cui ho avuto notizia, 20.000 ettari bruciati da fuochi che ormai hanno contagiato come un virus malefico tutto il Mediterraneo. Terre arse che rendono più struggente la bellezza delle zolle risparmiate dal fuoco, della ricchezza delle zone archeologiche, della poesia e sapienza di un “fare” antico, che ho incontrato nei luoghi e nella gente.

Olbia la felice

Olbia, la felice, deve il suo nome al greco antico. Porto aereo e navale, quasi 60.000 abitanti, da qualche anno trasformata in salotto per i turisti della zona Nord della Sardegna, è il motore economico della subregione Gallura. Qui si sente pochissimo la lingua sarda, perché prevale una lingua di derivazione corsa, ma anche cultura, usi e costumi sono differenti dal resto dell’Isola. In Gallura nel 1020 s’insediò un Giudicato, la cui araldica aveva per logo un gallo. Ma l’origine del nome, molto antica, non deriva dall’animale né dal giudicato. Secondo alcuni il nome si deve al fatto che la subregione si affaccia sul Fretum Gallicum=Stretto dei Galli (oggi Bocche di Bonifacio). Galli erano infatti gli abitanti della Corsica, conquistata, dopo le invasioni barbariche, dai Franchi. E’ del 1065 la prima testimonianza scritta del nome che appare nel Condaghe di Silki ,  nella forma “Gallula”, forse legata all’appellativo di probabile origine protosarda “callullu”, ovvero sasso. Altre ipotesi sull’origine, attribuiscono il nome alla parola ebraica Galil, regione o a quella fenicia Gallal , paese d’altura.

Olbia, Chiesa di S.Paolo

Interessante ricordare che ancora in epoca romana, la parte occidentale della subregione era abitata dai Bálares (in lingua sarda la Gallura si chiama Baddula) e perciò venne chiamata Balura. Bàlares si ipotizza derivi da “Bal, pietra + uru, sede, insediamento”. La Gallura ospitava infatti cave di marmi pregiati ed ancora oggi questo terreno, ricco di granito, regala aromi particolari ai vini che vengono qui prodotti.

Se in Sardegna d’estate una vigna…

La Gallura è territorio vocato alla produzione di un vino che qui riesce ad esprimere al meglio le sue caratteristiche uniche, tanto da divenire l’unico vino DOCG della Sardegna: il Vermentino di Gallura. Il terreno, prevalentemente granitico, regala a questa cultivar una naturale e spiccata mineralità.

Sulla strada intitolata a questo vino, a pochi chilometri da Olbia, ecco le Tenute Olbios incastonate nella macchia mediterranea e baciate dalla brezza di mare. Ci accoglie con cordialità la Signora Daniela Pinna, fondatrice nonché manager delle Tenute che, dopo averci guidato in visita alle Cantine, ci propone una degustazione.

Vini, prodotti appetitosi opportunamente abbinati, calici e porcellane, fiori, la storia delle Tenute narrata della Signora Daniela. Armoniosa composizione che allieta i sensi tutti. Parole, sapori, profumi si intercalano creando un bouquet nel quale mi perdo, diventando un tutt’uno con la storia (delle donne soprattutto) di questa cantina. La narrazione di Daniela sottolinea l’attenzione all’ambiente, al rigore biologico che vengono seguiti nelle coltivazioni prima e nelle fasi di produzione del vino. La ricerca della qualità e dell’eccellenza in maniera originale ed esclusiva. Limitatissimi trattamenti alle piante – seguiti direttamente sul campo dalla stessa Daniela, agronomo esperto cresciuta nella ricerca Universitaria prima e in vigna dopo. – Raccolta delle uve esclusivamente a mano, vinificazione al momento della vendemmia, affinamento ed imbottigliamento direttamente in cantina.
Che tradotto significa alta qualità.  Una scelta di vita, oltre che professionale, dichiara la Signora Daniela, che, dulcis in fundo, ci presenta la sua invenzione, il vino al cucchiaio. Una ricetta elaborata proprio da lei e destinata, prevalentemente, a chi non beve vino. E non solo, penso io mentre mi godo quella prelibatezza. Propiziata forse dall’assaggio di questa preparazione, dove la poesia del fare incontra la passione per i prodotti della terra, la narrazione della storia delle Tenute si fa più personale, diventa la storia di una famiglia che non rinuncia a dialogare con la bellezza della terra in cui è nata, ad esaltarla con le tecniche che ha appreso e con la passione che nutre.

Anfore

Le tradizioni e i miti

Attraverso varie vicissitudini, sono state prevalentemente le donne della famiglia della Signora Daniela a custodire e a tramandare le conoscenze delle tecniche antiche e tradizionali di allevamento di questo prezioso vitigno, fino a quando Daniela, seguendo una sua visione ben precisa, ha deciso di valorizzare ulteriormente questa risorsa con la produzione di vini di pregio a cui ha affidato il compito di raccontare la storia della famiglia e del territorio. Dopo aver completato gli studi come agronoma ed enologa, a cui ha fatto seguire anche la ricerca universitaria, Daniela ha finalmente realizzato il suo sogno e fondato l’azienda, che cresce anno dopo anno con grande impegno, passione e dedizione e che potrebbe avere nella figlia, che sta già facendo esperienza in azienda, una naturale continuità.

La madre di Daniela, lei stessa, la figlia. Mi torna in mente una frase di Giuseppe Dessì: “Dopo aver conosciuto Maria Carta, ancora una volta affermo che i soli grandi uomini della Sardegna sono state donne”. L’Isola Donna che ha visto Eleonora d’Arborea, Adelasia di Torres, giudichesse e Regine, bandite barbaricine, grandi scrittrici come Grazia Deledda.  

E poi le donne dei miti e delle tradizioni magiche. Le janas, che devono il loro nome  alla dea Jaune dei paesi Baschi, o all’etrusca Uni, o alle romane Juno e Diana, o alla cretese Iune, la Ioni asiatica; le deinas, chiamate anche videmortos per la loro capacità di comunicare con i defunti; las fadas (le fate) del Monte Oe che vivono nei nuraghi e tessono la buona e la cattiva sorte con un telaio d’oro; Tra le donni di fuora che appartengono alle leggende popolari c’è la gioviana, un genio tutelare che si presenta nelle case la notte del giovedì quando le donne si attardano a filare, per aiutarle; la vampiresca coga o sùrbile, percepita come una Nemesi che impone la giustizia; le panas o pantamas, spiriti di donne morte di parto che durante la notte si recano lungo i corsi d’acqua; la Saggia Sibilla che abita con altre janas nella grotta del Carmelo presso Ozieri, e alla quale la tradizione orale attribuisce il segreto della lievitazione del pane e l’invenzione dei fermenti lattici; Infine le ultime depositarie di un sapere antichissimo, che hanno costituito sino a pochi decenni fa una presenza e una realtà molto diffusa tra la popolazione sarda: le orassionarjas, erboriste che guarivano anche con formule magiche dette verbos e usavano tre grani di sale per scacciare il malocchio; le accabadòras (dal fenicio “hacab”, mettere fine) che assistono i moribondi abbreviando le agonie dolorose.

Le testimonianze

Museo di Cagliari, Dea Madre da Cabras La Grande Dea Madre non solo Energia che muove la Natura e crea la Vita, forza Creatrice quindi, ma anche forza distruttrice, Morte, in consonanza con la ciclicità del mondo naturale

Navi romane

E ancora Donne nel mondo del lavoro e delle Istituzioni. Adelasia Cocco, la prima medica condotta d’Italia, Ninetta Bartoli, prima sindaca dell’Italia Repubblicana, le minatrici del Sulcis, le donne delle cooperative femminili in qualsiasi settore, odierna realtà diffusissima e abituale.

Si delinea inevitabilmente una perspicua identità della Donna Sarda. Sul solco antichissimo del culto della Grande Madre, la centralità del principio femminile ha rappresentato in maniera preponderante, dentro e fuori l’Isola, la costruzione dell’identità sarda. A ciò ha contribuito non poco la letteratura e l’arte del Novecento, delineando una figura femminile legata alla terra, alla casa, alla famiglia, alle tradizioni antiche e magiche. Ma anche la realtà giuridica ha contribuito, dalla Carta de Logu un codice di giustizia che, tra l’altro, prevedeva sanzioni durissime per gli stupratori), all’Istituto Giuridico del matrimonio “a sa sardisca” che prevedeva la comunione dei beni, parità fra coniugi nello stipulare contratti e nelle successioni ereditarie.

Un viaggio attraverso l’altra Sardegna, quella “più isola”, come mi dice con occhi complici la Sig.ra Cecilia alla reception dell’albergo, quando mi fa notare quanto la sua isola, a differenza della mia Sicilia, sia così lontana dalla terraferma da riuscire a custodire, gelosa, una sua lingua, costumi incontaminati, una sua visione della società. E una sua visione della Donna e della Natura. Mirto, cisto, tamerici, zafferano, euforbia, fiordaliso spinoso, fichi d’india, peonie selvagge, gigli di sabbia, rosmarino, fillirea, ginepro, oleandro, boschi di querce da sughero, lentischi, eucalipti, pini, corbezzoli, ulivi e olivastri. È fra queste magiche piante, sempre rifiorite dopo disastrosi e criminali incendi, che possiamo trovare il profumo e l’anima di questa meravigliosa terra, “eterna colonia”, la definisce qualcuno, che tenacemente rinasce per mostrare la sua fiera bellezza

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