Nel vocabolario online Treccani è stato accolto ufficialmente un nuovo lemma: “smombie s. f. e m. inv. Chi cammina per strada senza alzare lo sguardo dallo smartphone, rischiando di inciampare, scontrarsi con altre persone, attraversare la strada in modo pericoloso”. Tanto nuovo questo neologismo non è: ne avevo letto sulla stampa italiana già nel 2016 ma era stato coniato in Germania nel 2008 ed eletto parola dell’anno 2015 per il linguaggio giovanile dal dizionario del tedesco edito da Langenscheidt.
Il neologismo, composto da “smartphone” e “zombie” mi aveva incuriosito perché “zombi”, al di là di quanto sappiamo sulla credenza nei morti viventi dei riti vudu antillani, per molti di noi ha assunto per estensione il significato di individuo in uno stato fisico e psichico inquietante, di estremo decadimento, stralunato, abulico, imbambolato. Mi sembrava un po’ eccessivo dare degli zombi ai tanti – me compreso, anche se molto di rado – che girano per le strade, a piedi, in bici, in monopattino, in moto, in auto con occhi e orecchie incollate al cellulare. Talvolta, collegati con i loro interlocutori “da remoto” si disinteressano di chi è “in presenza”, parlano ad alta voce di lavoro e molto altro, litigano anche furiosamente o si scambiano effusioni o commenti anche salaci, come se fossero soli in una spiaggia deserta.
La definizione, sembra sottolineare soprattutto il pericolo che gli smombies provocano a se stessi e agli altri, immersi come sono nei loro contatti via smartphone. Senz’altro il pericolo c’è e gli incidenti sono all’ordine del giorno quando si cammina o si attraversa la strada senza badare al traffico, per non parlare dei comportamenti irresponsabili quando si è alla guida di veicoli di varia natura.
Ricordo che sei anni fa mi ero appuntato questo passo (i corsivi sono miei) di un bell’articolo di Annalena Benini (Il Foglio. 23 febbraio 2016): “[Gli smombie] digitatori ambulanti, ignari del mondo che li circonda, destinatari delle maledizioni di automobilisti e ciclisti, pericolosi e vaganti per le strade trafficate, all’ora di punta, in metropolitana, su e giù dagli autobus senza mai guardare la strada, senza accorgersi degli scippatori, senza attenzione per la propria vita e per quella degli altri. Camminano avvolti in una nebbia sottile, urtano persone anziane, passeggini, pestano piedi e inciampano nei gradini, escono per un secondo dallo stato di soffice trance e dicono: scusi, ma subito riabbassano la testa, ricominciano a muovere le dita, sonnambuli del telefono, vagamente infastiditi dalla collisione con la realtà. [In alcuni Paesi sono state create corsie apposite per loro] dove possono continuare serenamente a galleggiare, con questo sguardo stralunato, senza irritare gli altri, quelli che ancora camminano col sole in fronte e la testa alta, quelli del vecchio mondo […], loro gli esseri umani superati, caparbiamente incollati alla terra, [che] si lamentano di questa invasione di uomini e donne a testa bassa, dai movimenti rallentati, che si perdono nelle rotatorie, che alzano gli occhi con un movimento stupefatto solo quando non c’è campo, e allora agitano le braccia, cercano il conforto degli altri passanti, chiedono se per caso c’è stato un blackout e danno la colpa al sindaco.”
Ma che c’entra tutto questo con la “Monna Lisa” con le cuffie (headphones, se preferite) sopra il titolo di questi Appunti? E, soprattutto, perché scomodare Leonardo?
Perché gli smombies sono quanto di più lontano dal modo in cui il grande artista e scienziato concepiva il proprio muoversi nel mondo di cui cercava di non perdere alcun dettaglio e sfumatura. Era stati capace di immaginare l’uomo in volo o in navigazione sotto la superficie del mare ma non era arrivato a prevedere la trasformazione dell’uomo in smombie. La sua immaginazione non arrivava a pensare che si potesse ideare alcunché senza partire da un’attenta osservazione della realtà, mantenendo sempre attenti e vigili tutti i nostri sensi.
Forse qualche lettore ricorderà che nell’ottava puntata di questi appunti avevo citato un passo del Trattato della Pittura di Leonardo (Parte seconda, 135. Della elezione dell’aria che dà grazia ai volti): “Infra le cose sono ombre insensibili di oscurità e di figure […]. Le cose vedute tra il lume e le ombre si dimostreranno di maggior rilievo di quelle che sono nella luce o nelle ombre.” E ancora: “Poni mente per le strade sul far della sera i volti di uomini e donne quando è cattivo tempo, quanta grazia e dolcezza si vede loro […] e questa è perfetta aria.”
Leonardo è “il maestro dei volti, delle anatomie, delle macchine. Sa come nasce un sorriso; e può inserirlo sulla facciata di una casa, o nei meandri di un giardino. Scapiglia e arriccia i filamenti delle acque, le lingue del fuoco. Fa un Cristo, un angelo, un mostro, prendendo ciò che è noto e si trova dappertutto, e inserendolo in un ordine nuovo». Tale per Valéry, la figura di Leonardo come artista. Ma per Valéry, Leonardo è anche una figura della coscienza riflessa, intesa come «il centro di gravità intorno al quale si organizza il sistema del mondo: mondo della natura, degli oggetti, delle sensazioni, dei pensieri, delle astrazioni, degli stimoli».
Così, Stefano Agosti nel saggio che accompagna la sua traduzione di questi due scritti di Paul Valéry su Leonardo, rispettivamente del 1894 e del 1919 (Paul Valéry, Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci. Nota e digressione, Milano, Abscondita, 2007).
L’artista, lo scienziato, l’innovatore in ogni campo o semplicemente il curioso della vita, osserva con attenzione ciò che accade dentro e fuori di lui o di lei e vede in anticipo, fantastica, immagina, sogna. scopre e progetta ciò che sfugge a chi vive isolandosi da sé, dagli altri e dal mondo.