Per la festa dei lavoratori, il 1° maggio, ho ricevuto auguri. Di certo per ricordare i diritti conquistati dai lavoratori, ma qualcuno anche per il Santo patrono di cui porto il nome, Giuseppe. Che è il protettore dei mestieri e la cristianità ricorda come il santo artigiano falegname, carpentiere, fabbro. Lavori con cui Giuseppe incarna simbolicamente le funzioni paterne.
Perché il padre-artigiano è colui che dona al figlio il tempo e ciò che produce. Trasmette che si può vivere della propria energia creativa e costruire l’esistenza con il fare nel “qui e ora”. Lavoro che in effetti più di ogni altro mestiere, dà senso al presente e valorizza la creatività manuale da impiegare nell’esistenza. Lavoro artigianale purtroppo ormai in abbandono in quanto trascurato, che nessuno trasmette e nessuno più impara.
Viene da pensare che anche le funzioni paterne si siano andate evaporando.
Ricordare quel Giuseppe-lavoratore, padre putativo e nello stesso tempo adottivo, fa ripensare al valore della paternità che, a prescindere dal biologico, incarna le funzioni simboliche oggi per lo più carenti. Manca proprio l’esserci per i figli nel “qui e ora”. Un padre, quello che incontriamo spesso, più affettivo di un tempo e meno guerriero, ma afflitto dalla smania del fare e dall’incapacità a sostare, riposare, attendere. I figli oggi lamentano la sua mancanza di presenza anche quando c’è, perché non lo sentono. Tace. Un adolescente una volta mi disse: “Sarebbe meglio un padre morto piuttosto che averlo e non poterlo godere”.
Per essere padri non bisogna, di certo, fare gli artigiani, ma è necessario attivare l’archetipo della paternità e saper coniugare il dovere del lavoro con il desiderio, invece che farsi occupare la mente solo dall’obbligo e dalla fatica. Questo è il motivo per cui ci sono padri sbiaditi presi dagli obblighi, che restano muti davanti alla scena dei figli. Di frequente non raccolgono il dolore interno degli adolescenti e sembrano incapaci di fiducia, in un tempo di grandi insicurezze e paure.
Come fa un giovane a immaginare il domani e a sognare il cambiamento, se i padri vivono il presente come tormento e il futuro come incubo?
Non meraviglia che oggi non si “sogni la California” come si cantava un tempo. E non sorprende vedere qual è la sofferenza che spinge i ragazzi a ritirarsi dal mondo. Gli Hikikomori, i ritirati sociali, si chiudono in una cameretta-utero salvifica e protettrice per paura delle relazioni. Altri si tagliano il corpo non per morire, ma per controllare un dolore ingovernabile. Alcuni si fanno portare da pensieri di morte che nascondono soprattutto ai padri perché li sentono deboli e incapaci di reggere il malessere.
Così gran parte del passaggio adolescenziale ora si vive con paternità trasparenti che non offrono una sponda di appoggio, e non contengono il caos e la solitudine. Numerose sono le adolescenze azzerate, private del presente e a cui adesso è stato tolto il futuro. Molte quelle prive di sogni sia perché vivono notti insonni ma anche perché nessuno ormai spinge a immaginare un volo.
Servirebbe davvero recuperare quel “padre-artigiano”, non certo il guerriero ma il negoziatore, capace di mostrare la fiducia e coltivare la pazienza, doti di cui un figlio ha bisogno per imparare a camminare da solo. Non per nulla Salvatore Quasimodo in una famosa poesia dedicata al padre scriveva: “La tua pazienza, triste, delicata, ci rubò la paura.”