Dice Solone: “Di ogni cosa bisogna indagare la fine. A molti il dio ha
fatto intravedere la felicità e poi ne ha capovolto i destini,
radicalmente.” In mancanza di notizie certe sulla mia fine, cerco di
ricostruire l’inizio e soprattutto quei rari e fugaci momenti in cui “il dio
ha fatto intravedere la felicità”.
Uno di questi momenti è senza dubbio il primo amico che ho incontrato in
questa terra. Non il primo coetaneo, ovviamente, ma il primo a cui devo la
straordinaria scoperta dell’amicizia.
Da allora ho avuto tanti amici e amiche, amicizie lunghe o brevi,
tranquille o tempestose, profonde sempre, altrimenti non parlerei di
amicizia ma di compagnia. Niente, in ogni caso, di paragonabile, alla
scoperta dell’amicizia, un’esperienza del tutto diversa da quella di figlio,
fratello, compagno di giochi e di scuola, amante.
So bene che è difficile risalire alle nostre origini e che chiunque parli
della propria preistoria si basa su reperti e frammenti che ricompone con
dubbia attendibilità, influenzato dal racconto che altri gli hanno fatto
della sua infanzia e dalle storie che egli stesso non ha smesso di costruire
partendo da desideri, bisogni, fantasie consolatorie o autopunitive.
Ma di quanto è avvenuto nella prima parte della mia storia qualcosa di – si
fa per dire – tangibile è rimasto ancora oggi e anche se non è così semplice
spiegarne le origini è proprio di questo residuo del tempo passato che
voglio parlarvi.
Resta la saudade il termine portoghese derivato dal latino solitas,
solitudine, che comprende in sé nostalgia, rimpianto, tristezza, rimembranza
e felicità, qualcosa che somiglia molto a quella che io chiamo ‘malinconia
fertile’
Mi vengono in mente le parole di Adieu tristesse, una delle splendide
canzoni di Vinicius de Moraes che facevano parte della colonna sonora di
un bel film del 1959, Orfeo Negro, regia di Marcel Camus:
“Oui, mais le bonheur
n’est qu’une larme
qui tremble sur le bord de chaque fleur.
Brillant dans l’ombre
à la fin elle tombe.
Ceux sont les premiers pleurs de notre coeur”
[Si, ma la felicità / non è che una lacrima / che trema sul ciglio di ogni
fiore. / Brillando nell’ombra / alla fine cade. / Sono i primi pianti del
nostro cuore]
Non fa piacere imparare a proprie spese che ‘nulla dura per sempre’ ma una
fertile malinconia è pur meglio che condurre una vita inautentica fingendo
di non vedere che contro l’infelicità si può combattere e qualche volta
ottenere perfino qualche provvisoria vittoria. La felicità può essere
avvicinata, talvolta sfiorata e perfino per qualche istante assaporata: una
meta dal fascino potente e ispiratore e purtuttavia sempre sfuggente. Uno
‘spasimo dell’anima’ l’ha definita Carlo Cassola in Un cuore arido.
Il saldo ancoraggio del primo amico d’infanzia nella memoria è dovuto al
fatto che proprio l’infanzia è un momento privilegiato. L’infanzia è il
luogo degli eventi puri, degli eventi non preceduti da esperienza, delle
novità assolute, absolute beginners. Così in Elegie di Duino R.M. Rilke
parla dell’infanzia: “[…] in quell’andar da soli / avevamo la gioia che dà
quel che non muta, / stavamo là in uno spazio di mezzo tra mondo e balocchi
/ in un posto che fin dall’origine / era creato per un evento puro […]”.
Solo l’amico del cuore può capire. Le avventure dei bambini sulla sabbia
ricavano buona parte del loro fascino proprio da quel luogo intermedio e
insicuro che è la battigia. Essa è simile al luogo magico del perfetto – e
sempre precario – equilibrio raggiunto dal funambolo, dalla danzatrice o
dalla portatrice d’acqua che cammina con eleganza reggendo una pesante
anfora sul capo. Per raggiungere risultati come questi ci sobbarchiamo
fatiche e sofferenze, ma sembra proprio che ne valga la pena, visto che ci
deprimiamo e ci immiseriamo quando la ricerca di sempre nuovi equilibri –
questo gioco – ci è impedita al punto di ridurci a semplici spettatori dei
giochi altrui. Con l’amico del cuore questo non è un problema. Così non era
un problema per me e il mio amico dell’infanzia romana, scavare un buco
profondo lungo un marciapiede di Viale delle Medaglie d’Oro per raggiungere
gli antipodi, immaginare un mostro metà uomo e metà serpente, il
“viperuomo”, che si aggira nel giardino della casa dell’amico, pensarci
intensamente alle ore 16.27 di un giorno di agosto quando lui è all’isola
d’Elba e io sono nella mia casa di Roma.
L’uomo e la donna colgono il meglio della vita nell’essere fertili più che
nel contemplare il prodotto della loro fertilità, a meno che quel prodotto
non abbia in sé un potenziale di trasformazione e di sviluppo capace di
rimettere di nuovo in moto la voglia di occuparsene, di ritrovare la gioia
dell’essere fertili. Le relazioni vanno coltivate se vogliono essere
mantenute vitali e feconde. Se nelle relazioni con persone, cose, animali,
ambienti, con i ricordi e con i progetti, non si trovano sensi sempre nuovi
con il passare del tempo, quelle relazioni sono destinate, nel migliore dei
casi, a trasformarsi in vuoto rituale, abitudine, dovere senza piacere.
L’intensa felicità di questa relazione tutta speciale è, ripeto, breve e
non ripetibile. La fine della prima esperienza di amicizia è spesso dura e
dolorosa perché è legata ai diversi ritmi di crescita dei protagonisti. Ce
n’è uno che si svincola dal rapporto esclusivo a due e crea nuove amicizie e
uno che vorrebbe mantenere il rapporto privilegiato e soffre per
l’allontanamento dell’amico del cuore. Patetici sono nel corso degli anni i
tentativi di ritrovare l’amico d’infanzia e deludenti gli eventuali
incontri, peggio delle riunioni con i vecchi compagni di scuola.
La felicità c’è ma si nasconde. È un’oasi nel deserto, forse un miraggio.
‘Oasi della gioia’ la chiama Eugen Fink. Non è a portata di mano. La sua
ricerca e il suo improbabile ritrovamento presuppongono un ripiegamento in
noi stessi e una presa di distanza da ciò che il mondo chiama ‘felicità’. Ci
vuole coraggio, determinazione e capacità di tollerare la frustrazione, una
volta scorta, di vedercela sfuggire di mano e scomparire.
Ricordo quando, attorno alla metà degli anni Settanta, visitando a Milano
una mostra sulla silografia giapponese, mi sono imbattuto in un’espressione
che avrei in seguito, più o meno arbitrariamente, applicato a quel terribile
e affascinante territorio che si spalanca in ogni ‘passaggio’, la terra del
non-più e del non-ancora: ukiyo-e, immagini del mondo fluttuante.
Scriveva Leonardo: “Infra le cose sono ombre insensibili di oscurità e di
figure […]. Le cose vedute tra il lume e le ombre si dimostreranno di
maggior rilievo di quelle che sono nella luce o nelle ombre.” E ancora:
“Poni mente per le strade sul far della sera i volti di uomini e donne
quando è cattivo tempo, quanta grazia e dolcezza si vede loro […] e questa è
perfetta aria.”
“Perfetta aria è quella tra il giorno e la notte. C’è tanta vita tra luce e
buio, proprio in quello spazio che appare meno apprezzato, più celato dietro
l’oblio e l’indifferenza. Più del giorno che lasciamo e della notte che ci
attende, Leonardo sembra invitarci ad apprezzare il passaggio, la
transizione. I giorni e le notti si incontrano, si fondono e trasmutano nel
tempo intenso delle albe e dei tramonti. L’uomo ha sempre avvertito
l’incantamento, la sacralità di questi momenti: quiete e angoscia, nostalgia
e utopia, speranza e disperazione, la compresenza degli opposti assume
un’evidenza straordinaria sullo sfondo di un cielo che “cambia a vista
d’occhio”.
Immaginavamo, io e il mio amico, di restare amici per sempre, nella gioia
delle fantasie e dei giochi condivisi. Ma era solo un momento di “perfetta
aria”, uno di quegli scorci di felicità che di tanto in tanto ci
sorprendono, ci incantano e se ne volano via, un “evento puro” come lo
chiama Rilke.*
* Parte di questo intervento risale al 2007, in occasione
della presentazione del libro di Marco Garzonio La vita come amicizia,
Milano, San Paolo.