Ancora una tragedia sconvolgente. Un’altra ragazza di 15 anni che qualche giorno fa, sul lago di Garda, si è tolta la vita. E noi adulti, come al solito per non rotolare nello sconforto più totale, ci inventiamo colpe di altri, soprattutto della tecnologia e dei social. Ma con il suicidio giovanile centrano poco, perché si tratta di un gesto complesso e imprevedibile, la cui sofferenza nascosta però non è priva di segnali. E allora serve parlarne. Serve sapere che dietro ogni azione suicidale c’è un pensiero mortifero che dura da un tempo lungo e indefinibile.
Non è un pensare alla morte come esperienza simbolica che in adolescenza è frequente perché è l’epoca in cui si nasce a una nuova vita, quella sociale, si perde l’infanzia e il corpo-bambino o si abbandonano le relazioni genitoriali. La morte che può diventare un progetto concreto, è un “desiderio” quando è percepita come liberazione da un dolore interno, insopportabile.Ed è la stessa sofferenza che spesso si trasforma in aggressività violenta, rabbia ingestibile verso gli altri oppure in autolesionismo di cui, ad esempio, i tagli alle braccia e sul corpo come illusoria soluzione della fatica del vivere. Altre volte diventa fuga nell’isolamento, ritiro sociale e scomparsa fisica agli occhi del mondo. Questi sono già segnali da cogliere.
Forse anche quest’ultima vittima ci pensava già da tempo al suicidio e potrebbe aver mandato larvate richieste di aiuto senza che nessuno le sapesse raccogliere. Non si tratta di dare colpe a qualcuno, quanto ricordare che il problema fondamentale è l’ascolto del dolore, la percezione del disagio che precede e accompagna il progetto suicidale. I numeri sono terribili se si pensa che quasi 900 mila persone nel mondo, ogni anno si tolgono la vita.
Ma è inaccettabile che il suicidio, tra i 14 e i 19 anni, sia la seconda causa di morte, dopo gli incidenti stradali. Di certo, il Covid e la guerra in quest’ultimo periodo, hanno fatto aumentare la zona grigia del disagio giovanile, ma la riflessione più urgente da fare è quella sulla disattenzione di chi sta vicino agli adolescenti. Nel suicidio è il loro sentirsi “soli” senza qualcuno capace di ascoltare e comprendere che alimenta la mancanza di futuro e prospettive. Ricordiamoci che si cresce solo se si è pensati.
E poi c’è ovunque la paura a parlare di suicidio, anche solo nominarlo. È pur vero che bisogna fare attenzione a non alimentare gesti di emulazione, ma conta il modo con cui se ne parla e si affronta l’argomento. Non vanno taciuti questi gesti e mi auguro che in quella scuola in cui andava la ragazza suicida, si affronti quello che è accaduto e si facciano emergere, magari con l’aiuto di specialisti le emozioni dei ragazzi.
Magari si saltino le lezioni consuete piuttosto che tacere sul dolore. “Il vero crimine è il silenzio” scriveva la psicoanalista Hanna Segal a proposito di ogni forma di violenza.Soprattutto ai media serve una narrazione adeguata, priva di morbosità e sensazionalismo, che offra non solo la cronaca dei fatti ma informazioni sulle strategie di aiuto e sulla gestione del rischio suicidario da parte degli adulti di riferimento.
È importante anche che i giovani sappiano cos’è la depressione e la disperazione e perché in certi momenti ci sono pensieri autodistruttivi. Ma è fondamentale dire loro che ci sono anche soluzioni e interventi di aiuto.Serve con urgenza che la scuola possa fornire ai docenti strumenti con cui saper cogliere il malessere pericoloso dei ragazzi e gli stessi adolescenti abbiano competenze per riconoscere i segnali della sofferenza dei compagni in difficoltà ed eventualmente soccorrerli.
La sfida educativa del nostro tempo è quella ridurre la competizione e potenziare, a livello orizzontale, solidarietà e empatia