Apatia. La distanza dalle passioni
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Si potrebbe chiamare pigrizia o mancanza di voglia, ma l’apatia non si esaurisce con queste definizioni perché è qualcosa di complesso che ha a che fare con i sentimenti e con gli affetti.

La parola viene dal greco “apateia”, termine composto da pathos (passione) e dal prefisso alfa (privativo) che indica la mancanza di partecipazione emotiva. Questa è l’apatia. Un sentire la distanza dalle emozioni e, spesso, un trovarsi lontano da tutto, in particolare dai desideri, in una dimensione che non è ancora patologia ma lo può diventare.
Caso mai è un segnale che anticipa o indica un disturbo dell’umore.
Più spesso un transito difficile in un momento in cui prevale il disinteresse per ciò che sta attorno. Allora ti sembra di non avere motivo né voglia di condividere nulla con gli altri e ti metti distante da tutto, ti isoli dalla realtà umana e sociale o, forse, resti in attesa che qualcosa accada. Prima o poi.

Non è un morbo che aggredisce, né un virus che infetta. Te la trovi addosso senza aver fatto nulla, scivolata dentro silenziosa e la senti prima come astenia, poi come “anestesia” capace di ridurre il dolore. In certi momenti la percepisci simile a un freddo che raggela e che silenzia l’ascolto degli altri e quello che vivono, portando altrove lo sguardo.
Se è occasionale e di scarso spessore, però è apatia utile per uscire da uno stress o da una delusione ma anche per raccogliere le energie e affrontare una nuova fase della vita.

Ad esempio c’è l’apatia giovanile, quella che attraversa l’adolescenza e le sue turbolenze, dove le mutazioni sono alchimie invisibili ma preziose, oppure terremoti potenti che sconvolgono la geografia delle regioni interiori ancora da coltivare.
E’ apatia necessaria come la noia che l’accompagna a dispetto di quello che pensano gli adulti ai quali preoccupa la solita denuncia “Potrebbe fare ma non si impegna”. Quasi esistesse solo la volontà. Serve invece l’apatia che ti spinge ad ascoltarti, a guardarti dentro e a costruire sogni. Purtroppo è scomparsa negli adolescenti di oggi l’apatia che conteneva la noia buona dello stare distesi a letto con gli occhi appesi al soffitto ad immaginare il futuro e a sognare la vita.

Poi c’è l’apatia dell’anzianità che ti coglie quando il carico degli anni diventa pesante e riesci poco ad alzare la testa per guardare in avanti. È quella che si insinua nel viaggio lento, pieno di soste e di solitudine.
È dimensione retroflessa e introversa del vivere, ma anche indifferenza che confina o contiene già il disturbo depressivo, quello che azzera la sfera emotiva perché sono venute meno le energie necessarie per rispondere al mondo. In parte quell’apatia è autoprotezione ma al contempo è sinonimo di dolore intenso da neutralizzare con il ritiro dal piacere che merita urgente attenzione e aiuto clinico.

Per il resto, però, a dosi sopportabili, l’apatia non è inutile, va tollerata e non demonizzata, tantomeno fatta scomparire d’un colpo. Aiuta se contenuta e se ne capiamo le ragioni, soprattutto se ci dice cosa dobbiamo cambiare per tornare ad esprimere ciò che accade dentro.

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