Richiusi forzatamente in casa le relazioni genitori e figli, sono decisamente mutate e le dinamiche che le alimentano nuove e inusuali. Oggi vengono narrate attraverso contatti fisici continui dove distanza e vicinanza hanno perso di significato e, forse, annullato il confine e lo spazio personale dell’intimità. Voci e sguardi, pensieri e azioni, pause e necessità individuali intrecciati a stati d’animo ambivalenti e difficili da gestire per chiunque.
Se prima di questa clausura forzata, la relazione seguiva l’intermittenza scandita dalla giornata di lavoro degli adulti, dai tempi della scuola dei figli e dall’andirivieni delle cose quotidiane, degli interessi e dei bisogni più o meno autentici dei vari membri, adesso tutto è continuo e forzatamente costretto dentro al perimetro corto delle stanze.
Se, in nome della salute pubblica, tutto è stato sospeso all’interno di una vita domestica isolata dal mondo, non si è però, arrestato il flusso dei sentimenti e il colore turbolento e variegato dei pensieri. Anzi l’altalena delle emozioni, lo spazio dei bisogni e dei desideri di ognuno si è intensificato. Le attese e le incertezze, le inquietudini dei grandi e i loro interrogativi sul che fare ora e domani, come uscirne e quando, si intrecciano alle domande dei bambini che non riescono a capire perché non si può uscire e correre, non ci sono i compagni del parco e come mai non vengono i nonni.
Così paure e ansie degli uni e degli altri si sommano e costruiscono scenari apocalittici alimentati non poco dal bombardamento mediatico sul contagio e sulle quotidiane statistiche della malattia.
Difficile tra gli adulti parlare d’altro e problematico individuare strade personali da intraprendere o immaginare come venirne fuori.
Ancora più problematico condividere con i bambini e gli adolescenti lo spazio delle emozioni altalenanti, stare con il loro sentire e accogliere le necessità senza rimuovere le nostre, accettare la turbolenza di questa attraversata comune e individuare nella ristretta realtà domestica la giusta misura di intimità insieme a una distanza adeguata che permette di non farsi del male o ferirsi troppo.
Possiamo ricordare la famosa parabola dei porcospini che ci insegna come, se pur faticosamente, sia possibile trovare una soluzione. Ma è una reale condivisione che ci aiuta a ritrovare quella relazione di contatto fatta di cose da mettere davvero in comune.
Una tra le più utili può essere quella del gioco infantile del “come se”. Ovvero la narrazione dei bambini che fingono una realtà e provano a viverla in una dimensione diversa. È un gioco magico e comune dove primeggia l’immaginario alimentato dalla fantasia che, in modo particolare si libera quando si soffre, perché, come diceva Freud “solo l’uomo insoddisfatto fantastica”. Giocare con i bambini al “facciamo finta che…” permette di andare con loro in un mondo parallelo a quello reale in modo da vedere la realtà da un altro punto di vista.
Significa stare insieme nel gioco di finzione dove la prospettiva si ribaltata in quanto il bambino cambia punto di vista, si mette da un’altra parte e inventa un altro significato alla sofferenza che dichiarata e messa in campo, può di essere contenuta o superata. Il poter giocare con loro alla pari di un compagno, li aiuta in quel gioco delle parti e a rinarrare la storia ma anche a immaginare un finale accettabile o meno catastrofico di quello che prospettano gli adulti.
Il compito del genitore sarà quello di partecipare e ascoltare, soprattutto “stare al gioco” rinunciando, almeno per un po’, al razionale e al giudizio. Uno stare insieme che aiuta il figlio ad avere prospettiva e fiducia, ma che fa bene anche al genitore.