Si preannunziava una notte buia come la pece. Il viandante arrancava, cercando di andare dritto davanti a sé ma era sempre più difficile nella luce incerta che precedeva la notte. Le nuvole in cielo non sarebbero state vinte dalle stelle. Un po’ di sabbia fine del deserto era sollevata dal vento ma era un vento lieve, non avrebbe spazzato via le nubi. Lui sapeva di dover andare dritto a ovest ma ormai l’ultimo baluginio di luce si era spento all’orizzonte. Per un attimo una stella comparve lassù tra le nubi ed egli sperò; si sarebbe orientato con le stelle, avrebbe trovato l’oasi che cercava e al di là di quella avrebbe continuato il suo viaggio.
Un viaggio lungo: faceva fatica, in quella notte buia, a credere che esistesse la sua casa alla fine della strada, i suoi cari, un posto sicuro. Fu tentato di lasciarsi andare lì, al freddo, al buio, accettando che la speranza della meta venisse meno. Ma continuò: era importante non rinunciare, non perdersi. E non perdersi d’animo. Gli occhi, che guardavano fissi di fronte a sé, si chiusero per la stanchezza. Tenace li riaprì ed ecco, quasi un’illusione, un vago alone rossastro là in fondo. Un effetto ottico, come certe ombre chiare che parevano attraversargli la mente dietro le palpebre chiuse? Però era costante , VERO….sembrava una luce…un fuoco! Era un fuoco. Oh…fermarsi al caldo…sostare….prendere fiato….attendere in compagnia il ritorno delle stelle o dell’alba. Con passo quasi più veloce continuò il cammino verso la luce, verso coloro che avrebbe trovato intorno a quel fuoco, verso il calore della fiamma e dei corpi, quei corpi stanchi dal cammino, come il suo, fratelli alla sua fatica, che lo avrebbero accolto senza domande, vedendolo sfinito.
E la loro sola presenza avrebbe consolato la sua stanchezza, rinforzato la sua speranza. Forse ci sarebbero state risa e canzoni o storie solo sussurrate, egli avrebbe partecipato a tutto. Sarebbe con loro riuscito ad attendere il ricomparire delle stelle senza il timore dell’abbandono.
Amò quel fuoco che gli concedeva tempo e calore. Amò quegli sconosciuti. Giunse e si accoccolò accanto agli altri.
Chiuse gli occhi, attendendo il mattino.
Patrizia Morganti *
* Sono ginecologo e vicina ai 70 anni. Vivo a Treviglio dove ho lavorato per 40 anni. Dal 1985, quando sono partita per la Tanzania, ho preso l’abitudine di scrivere a Natale a tutti gli amici qualche riflessione sull’anno trascorso e su ciò che le era successo. Nel 1996 la “lettera di Natale” divenne la “favola di Natale”, che voleva comunque raccontare l’anno appena trascorso e raccordarsi con il dono dell’anno, uguale per tutti e rigorosamente fatto da noi. Il fuoco accompagnava un bicchiere contenente una candela di gel trasparente con al fondo un piccolo blocchetto di gel rosso, dal quale sorgeva lo stoppino. Ne preparammo una sessantina…
Scrivere le mie favole (una all’anno, che mio marito corregge sempre meno!) mi ha sempre affascinato, così come mi affascina sentirle leggere dagli amici, ognuno dei quali ci trova dentro cose che non ero consapevole di averci messo… un giorno o l’altro ne farò un libro.