Il ministro Dario Franceschini ha ragione, in questi mesi difficili (quasi un anno ormai) le nostre comunità hanno trovato nella cultura un porto sicuro. Quanti di noi costretti in casa, il pensiero fisso all’evolversi preoccupante della pandemia e spaventati dal contagio, hanno assaporato in un buon libro, un bel film in streaming o un documentario alla televisione, un momento di assoluta evasione, approdando su un isolotto di benessere. Non avremo emulato la figura dell’Autodidatta di Jean Paul Sartre che voleva istruirsi leggendo rigorosamente in ordine alfabetico tutti i testi presenti nella biblioteca, ma il tempo che si è liberato con il lockdown ha aperto una finestra alla cultura, mentre ci vedevamo costretti a chiudere la porta di casa.
In questo lungo periodo di diserzione dalla normalità il desiderio (o il bisogno?) dello star bene ci ha spinto a scorrazzare nei territori della lettura, dell’arte, della divulgazione scientifica, del teatro, della musica, dello spettacolo con la stessa libertà di cui parla Michel de Certeau quando tratteggia il profilo dei lettori-viaggiatori: circolano sulle terre altrui, come nomadi che cacciano di frodo attraverso i campi che non hanno scritto, razziando i beni d’Egitto per trarne godimento.Ma nel nostro caso non si è trattato solo di godimento. Forse anche di salute e bisognerà tenerne conto.
La cultura e la crisi
La cultura nelle sue mille forme ed espressioni dentro a un’emergenza sanitaria senza precedenti l’abbiamo d’un tratto scoperta come possibile cura, come antidoto al malessere, al mal pensare. Un aspetto sociale non del tutto inedito, ma certo inusuale nelle dimensioni in cui si è presentato e di sicuro destinato a lasciare traccia nelle forme di consumo e della domanda di cultura. Ci sarà un gran bel lavoro da fare per gli antropologi, chiamati a studiare il fenomeno di come, da spazio e pratica di socialità, di aggregazione, la cultura si sia declinata in spazio di cura e rifugio, salvo vedere ancor più accresciuto il suo riconoscimento come patrimonio comune.
Al pari di una fase di recessione economica o di crisi finanziaria, quando succede che si investe in oro, polizze vita, auto d’epoca o immobili per proteggere il proprio capitale, di fronte alla crisi pandemica ci siamo rivolti alla cultura come bene rifugio dotato di un valore intrinseco, reale, capace di resistere e preservarci. Non serviva la recente indagine della Ipsos sui consumi culturali degli italiani ai tempi del Covid-19, tra vecchie e nuove abitudini, per confermarci che la cultura è un aspetto importante nella vita delle persone in quanto risponde a diversi bisogni, anche emotivi. E’ occasione di crescita personale, strumento per riflettere su se stessi, la società e il mondo, generatore di curiosità e desiderio di esplorare, è condivisione e partecipazione emotiva, è svago. E molto altro di ciò che serve per allargare la vita.
La crisi della cultura
Dalle istituzioni europee all’Unesco la cultura è stata definita un patrimonio comune strategico in tempi di Covid-19 per rafforzare la capacità di resilienza delle comunità. Eppure, è sempre dalle istituzioni europee che giunge un’insufficiente risposta alla crisi che ha colpito l’intero settore delle cosiddette imprese creative e nulla promette di buono pensando al futuro. Economicamente parlando, i settori culturale e creativo europei nel 2019 davano lavoro a quasi 7 milioni e mezzo di persone nei 27 paesi Ue. Si tratta in gran parte di piccole e medie imprese, spesso liberi professionisti legati ad attività dal vivo e con presenza di pubblico. Senza contare le ricadute sull’indotto.
Dei 750 miliardi di euro del programma Next Generation Eu, solo 2,8 miliardi saranno stanziati per la ripresa del settore culturale e c’è voluta tutta la pressione esercitata dal Parlamento europeo per raggiungere tale cifra, anche per non smentire la centralità affidata dalle stesse istituzioni europee al programma “Europa creativa”. Ci vorrà di sicuro tanta creatività per farseli bastare. Si pensi che nel 2020 il budget a disposizione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo italiano è stato poco meno di 2 miliardi. Se queste sono le premesse, sapremo – nel piccolo e nel grande – raccogliere l’appello di trasformare in un nuovo Rinascimento questa crisi, attraverso la ricerca, la cultura e l’educazione? Difficile a dirsi guardando l’anno trascorso e quello che ci sta davanti, segnato ancora dalle incognite di quale sarà l’evolversi del lento e non certo semplice, né indolore, passaggio dall’emergenza alla normalità.
E ancora più travagliato sarà per tutti quegli artisti e quelle branche della cultura che vivono di contatto e simbiosi con il proprio pubblico. La politica dei ristori rischia comunque di non rispondere alle esigenze di rilancio di un mondo, come quello della cultura, che la pandemia ha posto di fronte a sfide di governance complessiva da parte delle amministrazioni pubbliche (quelle provinciali comprese) ed esigenze di innovazione. Se andrà tutto bene, i prossimi saranno ancora mesi di parziale chiusura, buoni anche per le istituzioni culturali pubbliche e private locali per riassettarsi e misurarsi con tali sfide.
La cultura in digitale
Dal lavoro, alla scuola non escludendo la cultura, il digitale ha avuto l’innegabile ruolo di rimpiazzare tutte le attività in presenza non consentite dalla pandemia in corso. Gli strumenti digitali hanno svolto un ruolo di supplenza importante non solo per i fruitori abituali di prodotti e servizi culturali ma anche per una fetta di consumatori a bassa scolarità e poco abituati a frequentare mostre, teatri, musei e dibattiti, che il prolungato lockdown ha avvicinato al mondo della cultura. Un nuovo pubblico che andrà fidelizzato e avvicinato sempre più attraverso l’offerta culturale, intercettandone le esigenze. La mancata fruizione dal vivo di spettacoli ed eventi è stata solo in parte sostituita dalla fruizione da remoto.
L’indagine Ipsos ha fotografato comunque un marcato aumento dell’utilizzo delle piattaforme in streaming a pagamento e rilevato come un lettore su sei abbia sostituito la versione cartacea di quotidiani, riviste e fumetti con quella digitale. Più in generale la lettura di libri e/o eBook e la visione di programmi artistico culturali sono state le attività preferite svolte durante il lockdown sia nella prima fase che nel suo prolungamento. E se tra i principali minus del digitale rispetto all’evento dal vivo risultano la freddezza e la minore intensità emotiva , tra i vantaggi del digitale vengono citati dagli intervistati il vantaggio economico che deriva dal costo ridotto della fruizione, la libertà di accedere all’evento liberamente e in qualunque momento, l’ampliamento dell’offerta, la condivisione familiare. Tutti aspetti che incideranno nell’incremento dell’offerta culturale sulle piattaforme digitali anche a pandemia finita, in una logica che non sarà – e non potrà essere – di sostituzione dell’esperienza dal vivo, bensì di integrazione e arricchimento.
Oltre il fai da te
Nei primi giorni di reclusione forzata tutti noi abbiamo guardato un po’ meglio dentro casa nostra e ci siamo esercitati nella nobile arte dell’arrangiarsi. Si è trattato di un apprendimento sul campo dove, tra bricolage e lavoro a distanza, ci siamo trovati spesso a improvvisare. Hanno improvvisato anche le nostre più paludate istituzioni culturali a livello nazionale e locale, dai musei alle biblioteche, dai teatri alle filarmoniche, impegnati dalla gravità della crisi da una parte a far fronte alla minaccia che venissero minate le basi della loro stessa sopravvivenza e, dall’altra, spinti ad attrezzarsi per continuare ad assolvere i propri compiti. Abbiamo assistito a una moltiplicazione di contenuti digitali importante e molteplice: dalla visita virtuale alle stanze dei musei, alla riproposizione di video di presentazioni di libri, dalla produzione di format a supporto della didattica, alla pubblicazione di materiali d’archivio. Un’offerta assolutamente eterogenea che ha messo in luce anche diversi livelli di confidenza e perfezionamento nell’approccio al digitale. Da questa, che potrebbe essere considerata come una sorta di “prova generale” dell’evoluzione futura dell’offerta cultuale, si possono forse trarre alcune indicazioni generali di percorso.
Piattaforme culturali: un’occasione
Il digitale è destinato a conquistare sempre più terreno sul piano, ad esempio, della tutela, conservazione e valorizzazione del patrimonio (dagli archivi, alle biblioteche) nonché su quello dell’offerta di contenuti e dell’intercettazione di un pubblico di fruitori di beni e servizi culturali sempre più ampio. Già si affacciano al mondo della cultura nuove figure professionali, la cui formazione non può prescindere dalle competenze digitali.
La prima questione che si pone quindi è garantire le condizioni affinché tutti possano accedere ai contenuti e di conseguenza si possa contare su infrastrutture digitali adeguate. E si tratta, con tutta evidenza, di precondizioni necessarie non solo al mondo della cultura. La seconda è che non tutto si presta a transitare sul digitale, né tanto meno a esserne sostituito. La terza riguarda lo sviluppo di piattaforme che rispondano, tra le altre esigenze, a ridurre eccessi di frammentazione o duplicazione nell’offerta e favoriscano sinergie e collaborazioni tra enti e istituzioni culturali. Fra Trento e Bolzano contiamo specifiche e ben ripartite competenze nell’ambito della cultura, sistemi talmente territorializzati che in parte faticano a trovare ragione per sviluppare progetti comuni. Non mancano di certo gli ambiti in cui sviluppare, a partire da subito, possibili piattaforme digitali – spazi per costituzione deterritorializzati – capaci di creare reti, favorire la cooperazione tra istituzioni che operano in regione e valorizzare in tal modo un’offerta culturale sempre più ricca e qualificata.