Le parole che servono in adolescenza
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Comunicare non è cosa facile per nessuno, ancora di più oggi con l’affollamento incredibile degli strumenti per la comunicazione. Di solito ci parliamo addosso e non ci ascoltiamo.

In adolescenza le cose si complicano perché le parole tra adulti e ragazzi sono poche e le comunicazioni tra genitori e figli rarefatte. In genere aumentano i silenzi che si alternano alle urla e si sovrappongono ai pensieri. Spesso i figli tacciono e ti sembra che abbiano alzato muri, barriere di difesa e vogliano rintanarsi nelle loro stanze chiuse dove nessuno può entrare.

Del resto il ritiro sociale che sopravanza, è metafora di fuga ma anche di impossibilità a comunicare con le parole e i loro suoni convenzionali. Così in famiglia c’è un silenzio assordante fatto di ascolti inesistenti.

Per crescere invece ci sarebbe bisogno di parole diverse, meno infantili, e nuovi costrutti verbali. Servirebbero adulti di riferimento capaci di ascoltare molto e parlare quel poco che serve. Gli
adolescenti non rifiutano il dialogo ma l’incomprensione si alimenta con il silenzio e con le parole vuote di significato.

Se i ragazzi si lamentano dicendo “Non ce la faccio, mi sento un fallito” ai genitori non vien in mente che d’ incoraggiarli con un “Ma no, ce la puoi fare!”. E questo non aiuta, non serve, anzi blocca e fa retrocedere. Perché non contiene l’ascolto e non comunica quanto il genitore sia partecipe delle emozioni intense che l’adolescente vive in quel momento.

Servirebbe di più condividere con lui quei sentimenti dicendo “Capisco quello che senti e penso sia l’angoscia di non farcela”. Ma poi varrebbe la pena aggiungere “Però prova a pensare cosa ti servirebbe per farcela…”.

Di sicuro nel mestiere difficile e complesso del genitore, in agguato c’è sempre la sfiducia, cioè un sentimento negativo che ti fa pensare a un figlio che non si impegna. Così di seguito alle loro richieste, anche le più necessarie, spesso c’è un “no” come risposta dell’adulto. Ma in adolescenza non basta negare, anche se servono i limiti. I ragazzi a quell’età si aspettano dagli adulti motivazioni “forti” e argomentazioni valide. Per questo loro si battano a lungo e con insistenza in discussioni infinite e, senza grandi motivazioni, ti prendono per sfinimento.

Poi le parole non possono chiudere la comunicazione tantomeno essere barriere. Hanno invece il dovere di aprire dialoghi. Se come adulti non abbiamo risposte adeguate piuttosto che una perentoria negazione è meglio dire “Dovrò pensarci”. O aggiungere un “Si,.. ma” che è un modo per tenere aperta la comunicazione e dialogare per trovare accordi.

Per cambiare un comportamento, invece di appellarsi all’impegno e alla “volontà” che non risolve tutto ed è assai debole in quegli anni, vale la pena dire “Quali idee hai per cambiare?”. In aggiunta “E se ancora non funziona?” che vuol dire pensare a un piano B ed è un importante allenamento per guardare al futuro ma anche per immaginare come affrontare gli inciampi.

Infine piuttosto che insistere sempre e solo sugli errori dell’adolescente, è utile che il genitore racconti di sé, parli degli sbagli del passato, dica i suoi fallimenti. Le parole della propria vulnerabilità e la storia personale, che di solito i figli conoscono poco, sono una narrazione che mostra empatia e interesse.

Lo diceva anche un grande esperto di adolescenza, un maestro, lo psichiatra Tommaso Senise: “La comunicazione empatica, la comunicazione emotiva, ha nel nostro rapporto con l’adolescente un’importanza condizionante il rapporto stesso!”

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