Può educare il silenzio?
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Silenzio ed educazione appaiono, a un primo sguardo, come due parole o concetti antitetici, e forse diametralmente opposti.

Silenzio è comunemente inteso come assenza di parola, di suoni, mentre educazione come azione  in cui le parole sono le padrone della scena.

Immediatamente ci appare l’immagine della classe in cui entra l’insegnante e tutti devono stare in silenzio per ascoltare il docente.

Il silenzio, quindi, appartiene al discente, colui che vuole o deve imparare qualcosa, la parola invece a colui che insegna o educa.

Questo è sicuramente vero, così come è vero l’esatta opposta posizione: il silenzio può appartenere all’educatore, e la parola a chi invece apprende.

Come è possibile tutto questo?

Tutto dipende dalla dinamica, o meglio dagli obiettivi che ci si prefigge. Se la finalità è spiegare un nuovo contenuto, la meccanica di funzionamento di un oggetto, una formula matematica; l’insegnante deve parlare e l’allievo ascoltare.

Se, invece, l’educatore o il genitore ha come obiettivo quello di affiancare la persona, il figlio, a prendere in mano le redini della propria vita e diventare padrone di sé, allora non ha altra strada che rimanere in silenzio (come afferma Guido Pesci fondatore della Pedagogia Clinica).

Perché la strada per la padronanza di sé è data dalla capacità di saper riflettere, ovvero faticare, scavare, scegliere e finalmente destare l’azione della volontà di sé.

Riflettere, scegliere, agire sono tre verbi non solo collegati, ma consecutivi temporalmente. Prima è necessario riflettere, per poter scegliere e quindi agire. L’azione senza scelta è reazione, è condizionamento. Il condizionamento è privo di libertà. La scelta nasce dalla riflessione, che permette di osservare e valutare le conseguenze a breve e a lungo termine di ogni possibile strada da intraprendere.

Purtroppo oggi viviamo in una società in cui le persone rifuggono il silenzio, prima di tutto il silenzio esteriore e ancor di più il silenzio interiore. Ogni momento della giornata è occupato da parole, immagini, suoni. Basta osservare le persone per strada, mentre camminano osservano lo smartphone, hanno cuffiette per ascoltare musica, parlare al telefono. In attesa di prendere l’autobus rimangono incollati ai device, che sfruttano economicamente questa non educazione al silenzio.

Il silenzio spaventa. Lo dice anche Alda Merlini: “Chi tace spaventa” e io aggiungo: chi tace si spaventa.

Il primo passo diviene, quindi, quello di affrontare la paura che il silenzio genera.

Rispondo quindi alla domanda iniziale: “esiste un silenzio che educa?”, la risposta è sì. E’ il silenzio dell’educatore, del genitore che permette al figlio di riflettere. Osservare non solo le proprie azioni, ma la meccanica delle azioni, la sequenza che lo porta ad agire in una direzione piuttosto che un’altra.

Solo la consapevolezza che è generata dalla riflessione, permette alla persona di scegliere liberamente la direzione della propria vita.

L’esatto opposto è l’indottrinamento, l’ammaestramento, l’imparamento. In cui un insegnante, un educatore, un genitore usa la parola per orientare i comportamenti del figlio.

Quanto questo è efficace? Quanto soprattutto è spazio di libertà? Perché si sa che l’educazione fasulla porta al condizionamento, mentre l’educazione vera porta sempre alla libertà.

Impariamo, quindi, noi educatori, noi genitori ad apprezzare il silenzio, e soprattutto a usare questa grande risorsa. Consapevoli che è grazie al silenzio che possiamo accompagnare i nostri figli a essere veramente liberi, e agire con atti di volontà e consapevolezza. Abbandoniamo quindi la parola, perché la parola è una chiave, ma il silenzio è un grimaldello come affermava Gesualdo Bufalino.

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