Sopraffatti dalla vita. Quando i bambini perdono la speranza
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“E solo se, mezzo addormentati,

senza sapere di udire, udiamo,

essa [la voce del mare] ci dice la speranza

cui, come un bambino

dormiente, dormendo sorridiamo”.

(F. Pessoa)

Il trauma e la perdita della speranza

Una delle conseguenze più drammatiche della pandemia sulla psiche dei bambini e degli adolescenti, la cui crescita è stata prima travolta e poi schiacciata dalle conseguenti esperienze traumatiche e dall’isolamento, è la perdita della speranza. Non parliamo del passivo ottimismo- “andrà tutto bene” – proclamato sulle lenzuola appese ai balconi, ma di quella ἐλπίς che è, nella sua accezione principale, l’attesa del futuro. Come scrive Pietropolli Charmet (2020, 32): “C’è di mezzo la morte del futuro […]: non c’è più nulla da fare, e così ci si riduce a non fare nulla”. Dopo un anno un’intera generazione è bloccata in una sorta di limbo, senza che siano state messe in atto misure adeguate – che i ricercatori hanno individuato e raccomandato – -per mitigarne gli effetti.

Sull’argomento sono stati già pubblicati e sono in pubblicazione molti studi e tutti convergono nell’evidenziare il rischio nel breve e nel lungo periodo di un aumento di disturbi del neuro-sviluppo, della sfera del disagio psicosociale e dei disturbi mentali: sintomi d’ansia, depressione, disturbi del sonno, disturbi del comportamento alimentare, agiti autolesivi e tentativi di suicidio [1].

Prendono così il sopravvento la chiusura, l’apatia, la rassegnazione. La rassegnazione è collegata strettamente alla perdita di speranza, come evidenzia il documentario originale “Life overtakes me” proposto da Netflix e girato da John Haptas e Kristine Samuelson (Svezia, USA, 2019, 40’) sulla Resignation Syndrome (RS, Sindrome da Rassegnazione). Sono quaranta minuti di immagini che non si dimenticano.

La Sindrome della Rassegnazione

La RS è la concretizzazione, nella sua forma patologica più estrema, della perdita delle speranza.

Si tratta una grave condizione clinica che, a partire dal 2000, ha colpito in Svezia centinaia di bambini richiedenti asilo gravemente traumatizzati, riducendoli in uno stato stuporoso per mesi o anni, completamente inerti, incapaci di reagire al dolore e a qualunque stimolazione vocale e tattile, non si nutrono e non camminano autonomamente. Inclusa nel 2014 nella versione svedese dell’ICD-10, la RS è sempre correlata a un pregresso disturbo da Stress Post-Traumatico e/o depressione e si presenta con una serie di sintomi ascrivibili ad un quadro di catatonia. Non è stato ancora chiarito quale insieme di fattori determini l’alta incidenza della RS in questo Paese, ma sono stati segnalati di recente diversi casi in centri di detenzione australiani, altrove potrebbero essere ancora misconosciuti. In un primo momento era stata divulgata l’idea, cavalcata dall’estrema destra, di una sorta di Disturbo Fittizio, o addirittura una Sindrome di Münchhausen per procura, smentita dagli studi scientifici, che hanno appurato il non sussistere di alcun tipo di finzione o di manipolazione esterna.

Si tratta di bambini realmente e gravemente malati, originari di famiglie provenienti dai Balcani, dalle Repubbliche ex-sovietiche, dal Sud della Russia, per la maggior parte appartenenti a minoranze etniche e religiose, richiedenti asilo e a rischio di essere deportati. I loro genitori sono per la maggior parte perseguitati politici, vittime di violenze, torture e stupri, di cui i figli sono stati testimoni, o hanno subito a loro volta traumi psicologici e fisici.

Von Knorring e Hultcrantz (2020), nel loro recente studio su quarantasei bambini affetti da RS, hanno rilevato che sia loro i genitori sia i loro fratelli e sorelle soffrono a loro volta di disturbi della sfera traumatica e depressiva. Ricordano che in acuto le reazioni di questi bambini sono simili a quelle riconosciute in molti mammiferi di fronte a situazioni di estrema paura: dalla learned helplessness (impotenza appresa), a quella di “congelamento” e di apparire come morti.

Il documentario “Life overtakes me”

Nel film le scene della vista quotidiana di Dasha (sette anni), di Leyla (dieci anni), di Karen (dodici anni) e delle loro famiglie non vengono commentate. Vedere come i genitori si prendano cura di loro, come soffrano, come si raccontino, come vivano i loro fratelli e le loro sorelle, suscita nello spettatore sentimenti e pensieri forti, contrastanti; altre parole sarebbero fonte di distrazione. Parole misurate e competenti accompagnano invece le riprese di paesaggi innevati, fiumi ghiacciati, campi di terra scura, tutti desertici. Sono quelle di pediatri, neuropsichiatri, psicologi e giornalisti, che cercano di spiegare in modo chiaro il fenomeno, attenendosi a quelli che sono i dati riportati dalla letteratura scientifica (von Knorring e Hultcrantz, 2020). L’effetto è quello di un’amplificazione della drammaticità della narrazione: l’occhio dello spettatore guarda le immagini della natura che sembrano fungere da cassa di risonanza alle voci, dal tono pacato, facendo penetrare le parole in profondità.

Quella svedese, in passato, era una società aperta all’accoglienza e all’integrazione; progressivamente è cresciuto, come in tanti paesi dell’area europea, il sentimento anti-immigrazione, prolungando i tempi di valutazione delle richieste di asilo, che vengono sempre più spesso rifiutate. Di frequente, è proprio l’annuncio di tale rifiuto e la prospettiva della deportazione, che provoca l’inizio del progressivo di ritiro dal mondo di questi bambini, che si sono già adattati al nuovo ambiente, vanno a scuola e hanno imparato la lingua.

La famiglia di Dasha ha aspettato un anno e mezzo la risposta alla richiesta di asilo. C’era tutta la famiglia ad assistere alla lettura della “sentenza”, preceduta delle motivazioni dettagliate all’esito negativo alla domanda. I bambini, che non conoscevano tutti i particolari, “avevano capito tutto, prima che traducessero a loro”. Dasha si dispera subito, dice che l’avrebbero mandata via e uccisa, inizia a rifiutare il cibo e si trasforma pian piano in una piccola Biancaneve addormentata. La telecamera indugia sui particolari del viso e del corpo della bambina, completamente inerte.

Ai genitori viene spiegato che “sono loro che soffrono, non la loro figlia. Lei sta lì sdraiata perché quello che le accade è così terribile che questo è il suo modo di proteggersi, sta solo aspettando che le cose vadano meglio, per avere la possibilità di svegliarsi e essere normale, una persona di nuovo viva”.

Dasha è rimasta addormentata per più di un anno, fino a quando non è stato accolto positivamente il ricorso alla richiesta di asilo. È profondamente toccante cogliere la luce nello sguardo della madre di Dasha mentre dice: “Abbiamo ricevuto la conferma scritta che possiamo restare”. La guarigione di questi bambini è molto graduale e lenta, inizia solo quando la famiglia si sente al sicuro e sembra dipendere dalla ricostruzione della speranza. Una speranza che pare possa essere trasmessa solo dai genitori, attraverso varie forme di comunicazione: cambiano inconsciamente il tono della voce, il modo in cui si toccano, lo stato emotivo.

Ma non sempre c’è il lieto fine. Un esempio è Leyla, appartenente a una  famiglia yazidi che da circa un anno è ancora in attesa di ricevere una risposta alla richiesta di asilo; anche la sorella maggiore ha iniziato a ritirarsi dal mondo. “È tutta paura, i nostri corpi sono pieni di paura”, afferma il padre, mentre nella casa silenziosa le due bambine giacciono sui loro lettini. Vivevano in un piccolo villaggio di una trentina di famiglie e la madre è stata stuprata mentre andava a procurarsi l’acqua nel pozzo; il padre, disperato, urlava che avrebbero dovuto ucciderla, perché aveva disonorato la loro reputazione, e le due figlie sono state testimoni di tutto l’orrore.

In Karen, che è già adolescente, si nota una lieve ripresa: tra i tanti traumi subiti, ha anche assistito all’uccisione di un amico del padre. Solo dopo che alla famiglia è stato rinnovato il permesso di soggiorno temporaneo ha ricominciato a deglutire, sempre imboccato.

L’ipotesi psicoanalitica

Da un punto di vista psicoanalitico si è occupato specificamente della RS Daniel G. Butler (2020), che riprende il pensiero di Frantz Fanon (1961) sull’assoggettamento e la pietrificazione della corporeità dell’altro (il nero/l’immigrato) fino all’allucinosi in senso bioniano, e a quello di abiezione di Kristeva (1980). L’ipotesi è che questi bambini siano preceduti e sovrastati simbolicamente da stereotipi culturali persecutori e poi, attraverso un susseguirsi di shock, entrino in uno stato di stupore post-traumatico, in cui la vacillante simbolizzazione dello stereotipo stesso lascia il posto alla (dis)-incarnazione della “cosa abietta”.

Per Kristeva (1980) il concetto di abiezione riguarda il doloroso e perturbante processo del separarsi con violenza da ciò che prima era parte del proprio corpo (per esempio vomitare o tagliarsi). Si tratta di esperienze che ci costringono a realizzare che la nostra “casa-corpo” non è inviolabile, ma che i suoi confini sono fragili e facilmente invasi dalla traumatica realtà esterna. Il disgusto e la pena che si prova nei confronti di un frammento del nostro corpo consiste nel non rispecchiarsi più in un altro da Sè disponibile e accogliente, ma da una sorta di sosia mortifero. Nella loro inquietante concretezza, i frammenti di pelle, il sangue, i fluidi corporei, simboleggiano la frammentazione psichica che si genera quando l’altro non funge più da specchio in grado di riflettere un’immagine corrispondente e intera che mantiene l’individuo nella sfera del simbolico. Per proteggersi da queste sensazioni intollerabili, è necessario negare l’”abietto”, ripristinare i limiti del Sé corporeo, oppure porre questo Sé in uno stato di congelamento o pietrificazione, come nel caso della SR.

La drammaticità delle estreme conseguenze della perdita della speranza spinge a riflettere quanto gli eventi traumatici e l’impossibilità di pensare al futuro mettano a rischio la sopravvivenza psichica, e fisica, delle persone che stanno nascendo e crescendo in questo mondo. Soprattutto in età evolutiva, e in particolare in preadolescenza e adolescenza, la dimensione del tempo che si presenta davanti a sé per darsi da fare, per crescere e realizzarsi come persone è necessaria. In mancanza di questa anche la speranza, a poco a poco, si affievolisce e muore, trasformandosi in rassegnazione.

Possiamo legittimamente temere che forme subdole, varianti della RS, si stiano propagando oltre i confini della Svezia e, colpevolmente, gli adulti non stiano facendo nulla per riconoscerle e prevenirle prima che sia troppo tardi.

[1][1] Questo lavoro è una versione ampliata del commento al film “Life overtakes me” pubblicato sul sito https://www.spiweb.it/cinema/sopraffatti-dalla-vita-commento-di-e-marchiori/

[1] Vedi https://www.elisabettamarchiori.it/2021/01/24/espropriati-del-presente-e-del-futuro-limpatto-della-pandemia-sul-benessere-psicofisico-della-next-generation/

Bibliografia

Butler D.G. (2020). A Child is Being Caged: Resignation Syndrome and the Psychopolitics of Petrification. J Am Psychoanal Assoc, 68:333-357.

Fanon F. (1961). I dannati della terra, Einaudi, Torino, 1962.

Kristeva, J. (1980). Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione. Spirali, Milano, 2006.

von Knorring,AL., Hultcrantz, E. (2020). Asylum-seeking children with resignation syndrome: catatonia or traumatic withdrawal syndrome?. Eur Child Adolesc Psychiatry 29, 1103–1109.

Pietropolli Charmet G. (2020). Il motore del mondo. Solferino, Milano.

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